È inutile negarlo: anche nell’arte, come in tanti altri aspetti della vita, il nostro sguardo è filtrato da una lente occidentalocentrica. Se chiedessi a ognuno di voi di nominarmi un pittore, il primo che vi viene in mente, quasi sicuramente otterremmo una lunga lista di uomini appartenuti al passato, nati e vissuti in Occidente.
È proprio per questo che oggi ho deciso di raccontarvi di un’artista donna, non occidentale, che vive nel nostro tempo e che il presente prova a cambiarlo attraverso la sua arte. La storia di Shirin Neshat può aiutarci a togliere quella lente che ci porta a far coincidere la fine del mondo con il mondo occidentale, può aiutarci ad allargare i nostri confini mentali e a comprendere che molto spesso l’arte va ben oltre il celeberrimo quadro impressionista esposto alla National Gallery.

Shirin Neshat nasce in Iran nel 1957, in un Paese molto diverso da quello che appartiene all’immaginario comune: a quell’epoca le donne vivevano una condizione di libertà non dissimile dalla libertà occidentale. Nella seconda metà degli Anni Settanta Shirin Neshat lascia il suo Paese per studiare negli Stati Uniti; farà ritorno in Iran solo nel 1990, ma nel frattempo la situazione è radicalmente cambiata: a seguito della rivoluzione del 1979 erano state emanate delle leggi fortemente restrittive nei confronti delle donne, le quali potevano tenere scoperti solo il volto e le mani. Questo drammatico cambiamento di rotta che aveva inciso, sopra ogni altra cosa, sulla vita delle donne, porta Shirin Neshat a intraprendere una lotta silenziosa, ma incredibilmente determinata, per i loro diritti: la sua arma è la macchina fotografica, perfetto strumento di documentazione e denuncia.




In Women of Allah, un’emblematica serie di scatti in bianco e nero, l’artista riesce a mostrare quanto possa essere forte il messaggio di denuncia dietro a una fotografia: siamo davanti a una schiera di donne velate che lasciano intravedere solo dettagli di mani, piedi e piccole porzioni di volto – proprio come la legge iraniana pretende – ma sulle porzioni ‘libere’ vengono dipinti versi di poetesse iraniane in farsi. In Silenzio ribelle la Neshat si mette al centro dell’opera: velata, con il viso scoperto e lo sguardo che taglia l’obiettivo e colpisce direttamente l’osservatore; tra le mani ha un fucile la cui canna è poggiata sulla bocca: un segno di silenzio, ma un silenzio imposto, un silenzio che non lascia alternative.
La ribellione di Shirin Neshat è silenziosa, sì, ma quanto rumore fanno le sue fotografie? Sono un urlo assordante, davanti alle quali non possiamo rimanere indifferenti.
Barbara Talarico
© Credit immagini: link + link + link + Copyright Shirin Neshat. Courtesy Gladstone Gallery, New York and Brussels + link