Sospendere il giudizio. Entro in carcere con questa missione, con un obiettivo facile a dirsi, ma difficilissimo a realizzarsi, quando si ha a che fare con persone che hanno tolto a qualcunə la vita o compromessone il percorso.
Entro nella II° Casa di Reclusione di Milano con l’angoscia di chi un carcere non l’ha mai visto e non sa cosa aspettarsi. Esco con il sorriso, con il sorriso e l’amarezza di un’esperienza che mi è costata tanta riflessione nelle settimane a venire.
Il carcere di Bollate, rappresenta uno dei pochi esempi virtuosi in Italia, il contesto di una pena che ci si impegna davvero nel provare a ‘riabilitare’ e che, tra le varie attività previste, ha consolidato il teatro come strumento che permette di evadere (almeno) con la mente.

La Cooperativa Sociale Le Crisalidi nasce all’interno del centro detentivo con l’obiettivo di «avvicinare la società ad una realtà poco nota e apparentemente distante attraverso i laboratori e gli spettacoli, dando la possibilità alla cittadinanza di poter entrare all’interno dell’Istituto, di creare un dialogo e un confronto per emancipare il luogo di reclusione dall’etichetta che spesso gli viene apposta.» I laboratori teatrali, ai quali i detenuti possono partecipare regolarmente, sono aperti al pubblico esterno una volta a settimana, nel tentativo di mettere in comunicazione questi due mondi apparentemente tanto distanti: quello di chi sta dentro e quello di chi sta fuori.
Beatrice e Serena, che gestiscono la Cooperativa, sorridono, invitando il nostro gruppo di percettibilmente perplessi a mettersi in gioco in relazione con i detenuti che quel teatro lo frequentano tutte le settimane. A un iniziale spaesamento e scomodo imbarazzo, seguono due ore di illuminante distaccamento dal mio universo fuori e di divertimento puro, nello sperimentarmi in due contesti a me quasi totalmente estranei: il fare teatro e lo stare in carcere.

Le Crisalidi fa il suo ingresso a Bollate abbellendo con coloratissimi murales alcune zone della struttura in collaborazione con i detenuti. Da qui vira poi sul teatro, «dove, ormai da diversi anni, abbiamo iniziato un percorso di attività e laboratori teatrali con specifico interesse sui corsi di scrittura creativa, di teatro verbale e fisico.»
«Troppo spesso si tende a confondere la natura del Carcere, ancora immaginato come punitivo e non come riabilitativo. Lo scopo è quello di abbattere, con la cultura e l’espressione artistica, questi muri pregiudicanti che allontanano la popolazione interna da quella esterna. Il Teatro deve essere un’esperienza che arricchisce tutti indistintamente.»
Saltare, gridare, ridere e ballare; osservare, dire, ascoltare e riflettere; farsi domande, empatizzare, sentirsi distanti e vicini. Fare teatro con chi spesso squalifichiamo perché in carcere, ma che invece rimane una persona. Giovani e meno giovani che si esibiscono sul palco con una disinvoltura e una confidenza che li rende tutti attori bravissimi, e piuttosto invidiabili, ai miei occhi.
«Avevano paura di me, poi quando mi hanno conosciuto… Quante volte accade di temere lo sconosciuto, lo straniero, il carcerato, l’individuo ignoto, nel quale vediamo un pericolo unicamente perché è ignoto. Comunichiamo con tutti, non accogliamo nessuno. Solo qualche persona semplice si sottrae a questa paura, ma pesa poco sulla bilancia del mondo».
(Fine pena mai – Elvio Fassone)
Gaia Bugamelli
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