Nel Ventunesimo secolo ormai la problematica degli allevamenti intensivi è di dominio pubblico. Non sono più un segreto, infatti, le condizioni in cui sono costretti a vivere (o meglio, morire) gli animali e l’impatto decisivo che questo ha sul nostro Pianeta. Oggi la gran parte della produzione mondiale di carne è il frutto di queste industrie, che a loro volta sono il risultato di numerosi progressi scientifici e tecnologici per rispondere all’abbassamento dei costi e alla straordinaria crescita della domanda. I numeri sono evidenti e impressionanti, sul sito Animal Kill Clock è possibile monitorare in diretta il numero di animali macellati nei soli USA durante l’anno corrente.
Al di là dei numeri, a nessuno fa piacere l’idea di uccidere un animale e sull’eticità della questione si sono spesi da millenni innumerevoli pensatori, da Plutarco a Peter Singer. Ma come mai allora la maggior parte di noi la carne la mangia lo stesso? Il marketing dell’industria animale fa leva sul ‘paradosso della carne’, ovvero un insieme di meccanismi psicologici che ci ingannano o semplicemente distolgono l’attenzione dall’animale da cui il cibo proviene. Ci troviamo quotidianamente di fronte a una dissonanza cognitiva: vediamo il petto di pollo incellofanato sul bancone del supermercato e lo riconduciamo alla fettina panata più che al cadavere di un animale. Lo stesso avviene per i derivati animali, non colleghiamo la confezione di uova al trituramento industriale dei pulcini maschi.

Ci sono però dei mezzi che ci possono aiutare ad aprire gli occhi e cogliere il salto logico. In particolare, sono due le strade. La prima è la più dirompente: venire direttamente a contatto con le terribili immagini e video che mostrano ciò che accade realmente nei macelli. Si tratta di un processo che turba a tal punto la nostra sensibilità che lo evitiamo. È proprio su questo meccanismo che fa leva il ‘paradosso della carne’: ci rifiutiamo di collegare la sofferenza e le crudeltà al cibo che ci piace per non sentirci in colpa. Si tratta di un meccanismo intrinsecamente umano che porta la gran parte delle persone a reagire allontanando il problema come se non ci riguardasse.
Esiste però una seconda via: fruire di narrazioni che veicolano la realtà permettendoci di superare il salto logico in maniera meno forzata e traumatica. In questo caso la reazione non è scaturita dall’orrore ma dall’empatia. Mentre il disgusto porta all’evitamento e alla fuga, è l’immedesimazione che spinge a cambiare le persone.
Oggi esistono numerose fiction e associazioni che attraverso l’empatia sensibilizzano e contrastano gli allevamenti intensivi. Un caso esemplare è quello della pagina Instagram e blog Amiche per la cresta. Si tratta di un progetto gestito da Gaia, giovane attivista, che ha salvato due galline di nome Gnocca e Bella dagli allevamenti (di cui uno intensivo). I social raccontano da vicino la loro storia e forniscono informazioni sulla vita a stretto contatto con le galline, smontando la visione comune che le relega a unico mezzo di produzione di uova. Il tutto viene affrontato in maniera divertente: si possono trovare reel in cui le due pollastre ne combinano di tutti i colori e si trovano nelle situazioni più disparate. Sul sito è inoltre dedicata un’area alla divulgazione su cosa succede negli allevamenti e sulle condizioni in cui le galline vivono, il tutto documentato con fonti esplicite e articoli scientifici. Gli argomenti trattati sono ampi: si passa dalla mutilazione del becco alle indicazioni pratiche su come salvare un pollo adottandolo. Il risultato è innovativo e incisivo: Bella e Gnocca sono diventate attiviste in prima linea, convertendo molte persone a un’alimentazione più sana e consapevole. Di realtà del genere fortunatamente ne nascono in continuazione, ad esempio qualche mese fa abbiamo parlato di Uovo Perfetto qui.

Numerose sono anche le fiction che grazie all’intrattenimento sensibilizzano su questo tema, celebre è il caso del film d’animazione Galline in fuga. Le protagoniste sono delle galline di un pollaio inglese degli Anni Cinquanta costrette a produrre uova dalla mattina alla sera, ma che una volta stremate rischiano di finire nel piatto degli allevatori della fattoria. Decidono allora di prendere in mano il loro destino creando un piano di fuga degno di un episodio di Prison Break.

Trama molto simile è quella del libro Capannone n.8 di Deb Olin Unferth (edizioni Sur), una sorta di manifesto per la liberazione animale, che invita a riflettere sul rapporto stabilito nell’ultimo secolo tra l’homo sapiens e il bestiame che alleva. Anche qui la fuga rocambolesca delle galline da uova, aiutate da una serie di figure umane, avrà risvolti comici seppur con un grande messaggio di sensibilizzazione di fondo.

L’unica soluzione per un cambio di passo è prendere coscienza della realtà e sicuramente questo tipo di narrazioni sono uno strumento utile per iniziare ad agire consapevolmente, fondandosi sulla partecipazione emotiva tipica dell’essere umano.
Paolo Di Cera