Si dice spesso che ‘viaggiare è cultura’, un po’ una frase fatta, ma la cui essenza corrisponde a una verità incontrovertibile: venendo a contatto con realtà diverse si acquisisce coscienza di ciò che potrebbe rappresentare un’alternativa al nostro modo di pensare e interpretare il mondo.
Di recente ho toccato con mano tutto ciò in una trasferta nella capitale tedesca, una delle città più accoglienti in cui mi sia capitato di passare del tempo.

È difficile individuare la causa di tale sensazione, forse nemmeno esiste, ma sicuramente una responsabilità si può imputare all’estrema diversità e multiculturalità dei suoi abitanti. Da molti decenni le comunità extranazionali di Berlino hanno plasmato i quartieri cercando di ricreare il clima della loro cultura ma evitando la chiusura e l’esclusione degli ‘esterni’ tedeschi, così facendo si è verificata una commistione di valori e scambi che ha arricchito tutta la cittadinanza. I locali turchi dei quartieri di Friedrichshain o di Kreuzberg sono affollati di turisti e universitari che sorseggiano tè alla menta ascoltando world music, le pizzerie gestite da italiani – che rappresentano una ragguardevole e numerosa comunità – vengono raggiunte da altri italiani che accompagnano amici tedeschi.
Insomma, ciò che colpisce è l’estrema semplicità con cui un estraneo, sia esso turista o immigrato, venga inserito nel turbinio vitale della città.
È chiaramente un retaggio diffuso nell’ambito della gestione dell’inclusione nella comunità tedesca: molto si è fatto in ambito accoglienza e il modello tedesco pare essere il riferimento virtuoso per gestire flussi di persone che vorrebbero cominciare una nuova vita lontana dai paesi di origine. Su questo punto vale la pena spendere qualche parola perché l’esperienza diretta molto spesso può insidiare anche la più ferma convinzione: stare davanti ai container puliti e candidi del campo predisposto nel vecchio aeroporto di Tempelhof, nella zona meridionale della città, suscita un primo impatto di stupore, tanto che quel campo profughi potrebbe essere scambiato per un agglomerato di negozi. Poi sposti lo sguardo e noti la palizzata di confine, la sbarra con la guardiola all’accesso e le volanti che pattugliano il perimetro e non puoi fare a meno di esserne un poco spaventato, quasi come se quelli dall’altra parte fossero in una gabbia felice ma pur sempre una gabbia.
Le mille sfaccettature di una comunità sono spesso difficili da imbrigliare in un unico pensiero ma, come si diceva all’inizio, se non si tenta di scoprirle non si potrà mai evolvere nella consapevolezza.

Edoardo Sasso
© Credit immagini: Courtesy Edoardo Sasso