Dopo il Genocidio del 1994, il Ruanda trova riscatto nelle donne.

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Intervista a Patrizia, co-fondatrice di Progetto Rwanda

Nel 1994 il Ruanda, paese africano grande quanto la Sicilia, visse per oltre cento giorni l’inferno. I dati ufficiali dicono che 800.000 persone vennero ammazzate, ma la si ritiene una sottostima. Il settembre del 1998 il Tribunale penale internazionale per il Rwanda emanò la prima condanna a livello mondiale per genocidio, e per la prima volta il reato di stupro venne considerato parte del reato di genocidio. Lo si inquadra come conflitto tra etnie per il potere ma, come chiarifica Patrizia, l’astio tra i gruppi sociali era stato introdotto e istituzionalizzato dai colonialisti belgi negli Anni Trenta del XX secolo. Quando il 7 aprile del 1994 è scoppiato l’inferno le tensioni nel paese erano già alte da anni. Il capo della missione ONU nel paese, il generale canadese Romeo Dallaire, aveva più volte richiesto aiuti e allertato la comunità internazionale del pericolo, che però aveva volto lo sguardo dall’altra parte. 

Dall’inferno si ritorna

Ma  «Dall’inferno si ritorna»  scrive Christiana Ruggeri nel titolo del suo libro, che racconta la storia di Bibi, sopravvissuta al genocidio e oggi giovane studentessa di medicina all’università La Sapienza di Roma. Come Bibi anche il resto della popolazione ruandese, infatti, ha deciso di affrontare e provare a ricucire questa ferita così profonda. Onlus locali e straniere oggi lavorano per sostenere a distanza gli orfani traumatizzati dal genocidio e dalla guerra, intervenendo direttamente in progetti volti alla scolarizzazione dei giovani e alla formazione professionale delle donne. Secondo un’inchiesta dell’Unicef, dei 500.000 bambini che vennero resi orfani, il 95% aveva subito o assistito ad atti atroci e indicibili. 
Negli anni 2000 in Ruanda non si trattava unicamente di confrontarsi con la povertà estrema ma soprattutto con una popolazione totalmente traumatizzata e dimezzata.

Progetto Rwanda è una onlus nata nel 1996 originariamente per aiutare 30 bambini orfani a trovare una famiglia. Patrizia mi racconta che «quando incontri il Ruanda e la sua storia, ne sei completamente presa perchè è una sommatoria di violazioni di diritti e di tragedie che, però, è accompagnata da una potente storia di riscatto. E le protagoniste indiscusse di questo riscatto sono le donne». Nella capitale Kigali, i volontari del progetto lavorano alla Casa della Pace e della Riconciliazione, fondata nel 2005: uno spazio dove le donne possono frequentare corsi di avviamento al lavoro e costruire una nuova comunità, grazie anche alla costruzione di una scuola materna.

«Dopo 20 anni di attività i primi bambini che abbiamo aiutato sono cresciuti, si sono laureati e alcuni hanno invitato noi sostenitori ai loro matrimoni. Questo è il segno che il nostro aiuto va al di là del supporto economico, che è ovviamente fondamentale, ma soprattutto all’inizio quello che cercavano era una ‘mano’ affettiva che ti potesse stare vicino in quella situazione drammatica.»

Scommesse vinte

La scommessa su cui hanno fondato la Casa della Pace era che «se si riesce a mettere in piedi progetti di lotta alla povertà veri e concreti e si da anche sostegno psicologico, la riconciliazione è possibile e reale. E questo è avvenuto perché nella Casa si incontrano donne di diverse etnie e provenienza che creano amicizie e legami tra di loro». Un’altra scommessa vinta sono le tante nuove scuole materne, che riescono a togliere i bambini dalla strada, aiutandoli a costruire un futuro migliore per il paese. Il Ruanda si è ripreso in modo stupefacente e oggi è lo stato con la più alta percentuale di donne in parlamento al mondo, oltre ad avere grandi visioni ambientaliste. 

Maddalena Fabbi

© Credit immagini: link

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