Incastonato tra India e Cina e adagiato sul fianco meridionale delle cime himalayane, il Bhutan è oggi una monarchia costituzionale, economicamente molto dipendente dalle sue specificità territoriali. Non avendo mai completato un vero processo industriale, questo regno dipende dalle sue potenzialità naturali, partendo dall’allevamento (il takin è l’animale simbolo del paese) fino alla produzione idroelettrica di energia, che viene rivenduta al migliore offerente nei mercati internazionali. Ciò che è importante da sapere sulla cultura locale è il completo attaccamento alla filosofia buddista, declinata nel corso del tempo in una particolare attenzione verso la realizzazione personale dell’individuo e il rispetto per la natura. Non è un caso se oggi le foreste del Bhutan assorbono quasi il doppio della CO2 prodotta, né se questa particolare forma di governo è stata presa come modello di sviluppo sostenibile dall’ONU.

Nel 1729 il Bhutan, dopo essersi reso indipendente nel secolo precedente, costituì una prima forma di Codice civile in cui vennero riassunti i principi che avrebbero normato la vita e le aspirazioni dei suoi abitanti. Il principio cardine di questo testo così recita: «(…) se il Governo non riesce a creare felicità (dekid) tra le persone, allora non c’è ragione per cui esso esista»; un’affermazione importante, riassuntiva dei secoli di storia trascorsi in concordanza con i valori buddisti, con il rispetto verso i prossimi e con l’attaccamento verso la terra e la natura. Partendo da questa gloriosa eredità, più recentemente si è intrapreso l’ammodernamento delle istituzioni di governo (da una monarchia assoluta verso una divisione dei poteri) e della burocrazia, ispirate sempre dal raggiungimento personale dell’individuo. È nel 1972 che un decreto reale ha quindi dichiarato il GNH (Gross National Happiness, traducibile, facendo il verso al PIL, come Felicità Interna Lorda) la principale unità di misura del valore nazionale.

Il GNH concettualizza la felicità utilizzando nove sfere della vita personale, che vengono tradotte in statistica tramite l’utilizzo di trentatré indici; una volta pesati e unificati, questi producono un indicatore di sviluppo umano orientato all’esperienza quotidiana di ognuno, più che alla capacità produttiva collettiva. È quindi un passaggio importante, poiché partendo da questi dati i funzionari pubblici articolano le decisioni politiche in funzione della felicità personale delle persone, e non attraverso bilanci e rendicontazioni volti a un’accumulazione economica infinita. Questa metodologia non annienta però il lato economico, considerato comunque fondamentale nella felicità di una persona, ma semplicemente lo relaziona con altre sfere della vita personale, come il tempo che dedichiamo a interessi personali, il grado di salute o il benessere psicologico.
Nell’ultima decade il caso del Bhutan è diventato centrale anche nelle riunioni internazionali. Le Nazioni Unite nel 2012 hanno coniato il termine ‘happytalism’ (in contrasto al capitalismo) per inaugurare una nuova era di sviluppo sostenibile, che possa porre nuovamente la persona al centro dell’attenzione e riportare il valore economico al suo utilizzo strumentale e non più teleologico. L’Happytalismo supera e va oltre il vecchio e obsoleto sistema economico, e le forme politiche come il capitalismo o il comunismo (tra l’altro una dicotomia ben esemplificata dai vicini indiani e cinesi del Bhutan) vengono scartate in favore di un paradigma filosofico capace di attaccare alla radice le difficoltà globali che ci ritroviamo ad affrontare, sviluppando opportunità per tutto il genere umano.
Francesco Fiori
PER APPROFONDIRE:
- Bhutan Nova Lectio
- Ura, K., Alkire, S., & Zangmo, T. (n.d.). The Centre for Bhutan Studies. 65.
© Credit immagini: Kav Dadfar, Amazing views, 2021, Kav Dadfar, Incredible moments, 2021, Raffaele Tuzio, Smiles from Bhutan, 2013