Immaginate di nascere negli Anni Ottanta. Immaginate di mostrare, fin da bambini, una predisposizione naturale per il tennis. Immaginate di raggiungere a diciott’anni la top 100 della classifica ATP. Immaginate ancora di vincere i primi trofei l’anno dopo e di scalare posizioni del ranking torneo dopo torneo.
Finché a un tratto, senza che nessuno ti abbia avvertito, te la trovi davanti: la realtà.
Perché se la tua strada è quella del tennis, e non ti chiami Federer, Nadal o Djokovic, sai già che per quanto tu possa essere bravo, più bravo di tutti gli altri esseri umani della tua età, non potrai mai superare quei tre che di umano hanno ben poco.

Perciò, se ti chiami Andy Murray, per quanto tu possa combattere, per quanto tu possa superare ogni tuo limite, prima o poi devi accettare di essere solo un uomo. E gli uomini vivono, si emozionano, piangono. Andy Murray è un uomo che ha avuto il coraggio di piangere tre volte.
Le prime sono state lacrime di gioia, il 7 luglio 2013, dopo aver vinto il torneo di Wimbledon.

La seconda volta quel maledetto 11 gennaio 2019, quando dopo mesi di lotte contro se stesso e il suo dolore all’anca, ha annunciato in conferenza stampa il proprio ritiro, senza riuscire a trattenere il pianto. Questa volta pieno di dolore, rabbia, della consapevolezza che il suo sogno si era interrotto, che la vita aveva prepotentemente ribussato alla porta.

Arriviamo quindi al 20 ottobre seguente, ad Anversa, l’European Open, dove Murray decide di partecipare nonostante la frustrazione dei mesi passati, nonostante il dolore. E in quel torneo Andy gioca come non gli capitava da tempo, con una grinta e un furore che, almeno a tratti, ricordavano i colpi del campione. Riesce così ad arrivare in finale dove incontra Wawrinka, forse il solo che, come lui, negli ultimi anni era stato capace di interrompere il dominio di quei tre, e che, come lui, da tempo, non riusciva più a trovare la condizione adatta per tornare a vincere.
La partita è intensa, nessuno dei due vuole perdere. E forse accade. Perché alla fine del terzo set, quello decisivo, non si ha la sensazione che qualcuno dei due sia uscito sconfitto, ma solo che uno dei due sia più vincitore dell’altro.
E quel qualcuno è Murray, che, inevitabilmente, scoppia a piangere. Piange per se stesso, per dirsi che ce l’ha fatta. Ma piange anche per tutti quelli che gli sono stati vicino in quel periodo così buio e che gli hanno impedito di sprofondare nel baratro.
E infine forse piange anche per tutti noi, per ricordarci che a volte l’impresa eccezionale, è essere normale.
Francesco Castiglioni