Quello che hanno in testa: dialogando con Sumaya Abdel Qader, consigliera comunale e sociologa

Secondo un recente studio, il 59% deə cittadinə italianə ritiene che l’identità nazionale stia scomparendo, mentre il 48% crede che l’eredità cattolica del Paese vada preservata dalle interferenze di altre confessioni. Sarà questo rigetto nei confronti di tutto ciò che non è inequivocabilmente italiano ad aver costretto Sumaya Abdel Qader a ritirare la sua candidatura come presidente della Commissione Cultura di Milano nel 2018? 

La consigliera comunale nata a Perugia nel 1978 da genitori giordani, destò molte polemiche all’epoca, e le numerose lauree in biologia, sociologia e mediazione linguistica e culturale non sono bastate a riconoscerle le competenze atte a rivestire il ruolo: «Si diceva che non era possibile che a Milano diventasse presidente della commissione cultura una musulmana perché ‘Ci islamizzerà, non avrà rispetto per la cultura italiana’» – queste le parole con cui Sumaya ricorda quel periodo. 

*Ad oggi, Sumaya Abdel Qader non è più parte del progetto AISHA

L’evento è emblematico del clima di diffidenza generalizzato nel nostro Paese, che ancora oggi prende a sassate ciò che non è italiano a prima vista. A livello istituzionale, «si fa tanta fatica ancora a prendere i propri spazi per le proprie competenze. Ci sono partiti che inseriscono nelle loro liste una persona di origine sudafricana, musulmana col velo, appartenente alla comunità LGBTQ+, ma lo fanno un po’ come bandierina colorata». Dichiariamo di essere prontə ad accogliere il diverso senza renderci conto che, molto spesso, questa alterità già alberga nella nostra società e vive da tempo stando alle nostre regole. Come nel caso di Sumaya: una musulmana col velo. Omettiamo le tre lauree conseguite in Italia e il fatto che sia nata a Perugia: inevitabilmente farà tabula rasa di una cultura, quella italiana, che non può assolutamente avere idea di cosa sia.

In questa rappresentazione distorta della realtà, giocano un ruolo fondamentale i media italiani, nel modo in cui ci parlano di un Islam spesso radicalizzato e distante, incompatibile con i valori dell’Italia fiera e cattolica che conosciamo bene: «Abbiamo una sotto-rappresentazione incredibile della figura delle donne musulmane, di tutto quello che è altro, che non è mainstream». Quello che ne consegue è una falsazione della realtà che ci permette di delegittimare una persona col velo nel ritenerla non rappresentativa della società in cui viviamo, e dunque disconoscendole il diritto di rivestire un ruolo ‘tanto ambizioso’ nell’amministrazione pubblica di una città. 

Nel suo ultimo libro Quello che abbiamo in testa (Mondadori, 2019), Sumaya definisce ribelle e femminista la scelta di portare il velo: «In questo contesto occidentale indossare il velo è ribelle perché va contro tendenza» – e aggiunge: «secondo una visione femminista la donna deve essere libera di autodeterminarsi facendo del proprio corpo ciò che vuole e la mia autodeterminazione anche spirituale ha valore in questo senso». Più volte questa scelta le è stata contestata quale indice di mancata emancipazione, ignorando quanto la sua fosse invece una decisione consapevole e niente affatto dettata dall’esterno «un atto di fede, l’espressione di un percorso spirituale». Quando le chiedo come si senta a dover conciliare l’evidente esplicitazione della sua identità religiosa in un contesto laico come quello della politica italiana, mi risponde serena: «Ma io sono una persona laica, nel mio quotidiano, nelle mie scelte, come donna che fa politica che ha come riferimento la Costituzione e la Legge italiana. Ho poi un’identità spirituale che vivo personalmente se pur un “pezzo” sia visibile”». 

Ci interroghiamo circa le prospettive di un giornalismo diverso, che delegittimi la retorica dell’invasione rendendo testimonianza del multiculturalismo che ci circonda. Un primo passo sarebbe quello «di riportare le notizie per come sono, senza un giudizio sulle cose». E poi «l’importanza di andare dai musulmani competenti, non solo come voci di testimonianza ma anche professionali: c’è il musulmano giornalista, psicologo, medico». Infine, non relegarne la definizione alla religione (‘il medico musulmano’), ma limitarne la caratterizzazione alle competenze in discussione «perché è la normalizzazione di cui abbiamo bisogno, andiamo ancora per eccezionalismi».

Gaia Bugamelli

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