La bicicletta è ormai protagonista indiscussa dei centri urbani e pietra fondante delle politiche urbane nazionali e internazionali. Grazie alle recenti politiche di sensibilizzazione in ambito ecologico, la bici sta guidando il cambiamento delle nostre abitudini: progressivamente sembra che tutto il mondo – anche il più scettico – si stia adattando a questa tendenza.
Varcando il confine mediorientale però, e volgendo lo sguardo al territorio israelo-palestinese, sembra che la sfida della bicicletta verta su qualcos’altro: non (solo) sull’esistenza di un pianeta intero, ma di una specifica popolazione, quella palestinese.
È il 2016 e siamo nella città palestinese di Ramallah, qualche chilometro a nord di Gerusalemme: è qui che prende forma Ramallah Riders, un’organizzazione di giovani ciclisti. Di lì a poco, il neonato gruppo avrebbe raccolto attorno a sé più di 3000 amanti dei giri turistici in bicicletta, rinominandosi Cycling Palestine.
Oggi Cycling Palestine organizza tour politici in bicicletta per scoprire i luoghi dell’occupazione israeliana e sensibilizzare i ciclisti sulla situazione politica locale percorrendo strade sterrate e tratti polverosi in sella al mezzo che amano. Come si legge nella loro pagina Facebook, nel 2017 i membri di Cycling Palestine hanno visitato un altro paese tentando di attraversare i confini e aggirando le frontiere e i posti di blocco israeliani:
«La nostra Freedom Ride ci ha portato dalla città santa di Gerusalemme nei territori palestinesi occupati alla città costiera di Aqaba, nel sud della Giordania».
Sulla rivista online This week in Palestine la giornalista e co-organizzatrice di Cycling Palestine Malak Hasan riflette sull’efficacia del progetto ciclistico palestinese: «Andare in bicicletta [in Palestina] è uno strumento di cambiamento. Oltre al fattore ecologico, dal punto di vista sociale è fantastico. È il miglior modo per rompere il ghiaccio, perché, ogni volta che siamo in viaggio, qualcuno vuole parlarci e scoprire chi siamo».
Hasan poi ribadisce l’obiettivo di Cycling Palestine, ovvero quello di sensibilizzare più persone all’utilizzo quotidiano della bicicletta. «Molte persone hanno adottato [la bicicletta] come stile di vita; ora vanno a lavorare in bici».
La Cisgiordania è – in questo senso – un luogo certamente non confortevole per viaggiare in bici in piena sicurezza. Il territorio è collinoso, fa caldo per gran parte dell’anno e il ciclismo è ancora considerato un’attività inusuale, soprattutto per le donne. Inoltre, l’area rivendicata dai palestinesi manca di continuità e contiguità territoriale, poiché costellata da centinaia – 705, stando ai numeri delle Nazioni Unite – di barricate e posti di blocco israeliani.
«Tra ogni valle e la successiva c’è un insediamento [israeliano]» – ha detto Hasan – «Se vuoi pedalare per 50 km, dovrai affrontare almeno due posti di blocco e un insediamento, forse una torre di sorveglianza, pattuglie; la continuità è sempre interrotta.»
Cycling Palestine usa un mezzo storicamente scomodo e pungente come la bicicletta per rivendicare il diritto alla terra e all’autodeterminazione del popolo palestinese. «È nostro dovere mantenere il nostro rapporto con questa terra» – ha detto Suhaib Samara, uno dei due fondatori del progetto ciclistico palestinese. – «Se smettiamo di muoverci, gli occupanti ne ruberanno di più».
Resistenza per la sopravvivenza di un popolo: Cycling Palestine, in sella a una bici, ci crede.
Pietro Battaglini