Scrivo poesie perché non so spiegarmi a parole: intervista all’artista Dario Pruonto

Una mattina, in un bar in pieno centro di Milano, una tazza di caffè ci sospende dal tran tran cittadino e il suo aroma apre le porte all’arte.

Incontriamo Dario Pruonto, il poeta che sui muri si firma Caos. Pubblica le sue poesie in strada tramite diversi medium, che possono essere installazioni, murales, porte, lavori di vario genere con l’idea di connettere comunità, poesia e spazio urbano. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare qualcosa in più sulla sua vita e poetica.

Come e quando hai iniziato a fare l’artista?

«Ho iniziato ormai dieci anni fa per puro caso perché avevo un’urgenza espressiva legata a un episodio specifico del mio quartiere d’origine e, da abbastanza incosciente quale sono, ho attaccato molti poster in giro per il mio quartiere con la mia prima poesia in strada.»

Hai incontrato delle difficoltà durante il tuo percorso?

«Credo che le difficoltà che incontrerò nel prossimo futuro saranno estremamente più grandi di quelle incontrate fino ad ora. Sono difficoltà che può incontrare qualunque persona che si approccia al mondo dell’arte o dell’espressione sotto tanti punti di vista. L’arte è un mondo in cui devi difendere ogni secondo ogni centimetro che guadagni, ma bisogna anche lasciarsi permettere di fallire per andare avanti. Difficoltà tanto grandi non ne ho incontrate proprio perché mi sono concesso di sbagliare tante volte»

Qual è stato il tuo percorso di studi?

«Io ho una laurea in un campo totalmente diverso da quello artistico. Volevo fare tante cose, ne ho scelta una, ma ho capito che non era quello che mi faceva stare bene in quel momento della mia vita. Dopo i primi poster, lo scrivere poesie sui muri è diventata molto velocemente un’attività travolgente e totalizzante, fino a trasformarsi nella mia principale occupazione» 

Chi ti ha ispirato in questo tuo percorso?

«Gli artisti a cui mi ispiro sono Isgrò, lo scozzese Montgomery, il collettivo Boa Mistura, anche se i miei punti fermi sono fuori dal mondo dell’arte: la mia principale ispirazione arriva dagli incontri con le persone comuni. Da anni il mio studio è un garage e i miei assistenti di laboratorio sono i pensionati dei garage vicini, che mi aiutano e mi danno consigli. La mia ispirazione, quindi, è il taglio umano della persona non codificata. Nella mia vita ho incontrato tante persone che si danno un ruolo, magari perché hanno fatto un certo percorso di studi che conferisce loro quel tipo di istituzionalità, ma a volte manca loro quell’attitudine al dialogo che trovi solo nelle persone che agiscono senza pensare al proprio tornaconto, interessate solo a te e alla tua arte, intesa nel senso di processo di creazione.»

C’è una frase che non dimentichi o che ti aiuta nei momenti di difficoltà?

«Non saprei, in realtà ne ho un paio che sono autobiografiche e mi servono per cristallizzare alcuni momenti di svolta del mio percorso e prendono radice da tutto quello che ho assorbito. Ad esempio: ‘Scrivo poesie perché non so spiegarmi a parole’ è il mio manifesto e mi ricorda questo scarto: per quanto mi definisca come poeta, io vengo da un altro mondo che non voglio dimenticare e l’arte, la poesia, è semplicemente lo strumento che utilizzo per esprimermi. Dunque fare arte, ma senza dimenticare il rapporto umano: preferirei smettere di fare l’artista che diventare uno squalo.»

Che cosa significa per te fare l’artista?

«Me lo chiedo tutti i giorni, non saprei cosa rispondere. Io non volevo fare l’artista, dieci anni fa insegnavo a scuola, dieci anni dopo faccio arte, tra dieci anni potrei fare il panettiere e ne sarei felice. Attualmente fare l’artista vuol dire stare nella mia dimensione di felicità, che potrebbe cambiare tra dieci anni

Tra dieci anni come vedi il tuo mondo?

«Radioattivo, in guerra civile e io probabilmente morto! Scherzi a parte, in realtà spero di essere qui allo stesso modo in cui sono adesso, con le persone che amo al mio fianco e con cui sto bene. Se ciò non accadrà, pazienza, non credo che dobbiamo fare le stesse cose per quarant’anni con le stesse persone, non credo alle dinamiche dei per sempre dei costrutti sociali in cui siamo cresciuti. Mi interessa vivere bene il mio lavoro, poi se viene apprezzato da qualcuno sono contento, ma non voglio fare arte fine a se stessa. Mi piacerebbe fare la Biennale di Venezia: ci vorrei arrivare con persone che lavorassero insieme per il gusto di farlo e per cambiare il mondo in cui viviamo, lasciandolo migliore di quello che è adesso. Questo è il mio desiderio tra dieci anni.»

Hai un messaggio per i lettori?

«Non fate gli artisti! Scherzo, ovviamente.

FATE CIÒ CHE AMATE!»

Jessica Diolaiuti

© Credit immagini: Courtesy Dario Pruonto

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