Jesse Owens U.ES.A.

Nel corso della nostra vita, forse nulla come lo sport è capace di scandire e delineare il tempo. L’incidente di Senna a Imola, il The Rumble in the Jungle, il rigore sbagliato da Baggio o quello segnato da Grosso in finale dei Mondiali. Chiunque fosse vivo e in grado di intendere si ricorderà perfettamente dove si trovava in quel preciso istante. 

Ma se dovessimo scegliere un evento sportivo per raccontare cosa è stato il Novecento, probabilmente non esiste niente di meglio delle Olimpiadi di Berlino del 1936. 

La Germania nazista che tre anni dopo invaderà la Polonia dando inizio alla Seconda guerra mondiale, voleva celebrare la propria supremazia, sia dal punto di vista organizzativo e spettacolare sia da quello fisico.

Berlino, 1936

Infatti i tedeschi quei Giochi Olimpici li dominano, vincendo un quantitativo di medaglie spropositato (33 ori, 26 argenti e 30 bronzi). 

Gli unici a sembrare in grado di opporsi a questo strapotere sono gli Stati Uniti, grazie anche a un ragazzo afroamericano di 22 anni nato a Oakville, Alabama, di nome James Cleveland Owens. 

Essere neri in America agli inizi del secolo significava nella stragrande maggioranza dei casi essere anche poveri, parecchio poveri. Fu per questo che Owens da bambino dovette trasferirsi assieme alla sua famiglia nell’Ohio, dove J.C. fu storpiato in Jesse, e dove scoprì di essere il più veloce di tutti. 

Nel 1933, ai campionati studenteschi catturò l’attenzione del mondo sportivo, ottenendo grandi risultati nella corsa e nel salto in lungo, tanto da meritarsi una borsa di studio per la Ohio State University. Due anni più tardi, alla Big Ten Conference di Ann Arbor, nei 45 minuti che vanno dalle 15:15 alle 16 migliora quattro primati mondiali differenti. 

Ed è così che si presenta alle Olimpiadi del ‘36 come uno degli assoluti favoriti. Gli americani lo mettono in guardia e gli dicono che in Germania, in quegli anni, i neri non erano visti tanto di buon occhio, per usare un eufemismo. Ma al momento del suo ingresso allo stadio olimpico di Berlino, quando lo speaker pronuncia le parole «Jesse Owens U. ES. A.», dal pubblico non si levano fischi ma un boato, e Jesse capisce che forse non gliel’avevano racconta tutta giusta. 

Jesse Owens

Come era prevedibile Owens vince la medaglia d’oro nei 100 e nei 200 metri piani e nella staffetta 4×100, ottenendo due record mondiali (sarebbero stati tre, ma quello per i 100m viene annullato per eccesso di vento a favore).

L’unica competizione in cui sembra trovarsi più in difficoltà è il salto in lungo, dove con lui a contendersi l’oro c’è il tedesco Carl Ludwig Long, per tutti Luz. 

É il 4 agosto 1936, Jesse lo stesso giorno ha già vinto la sua batteria nei 200 metri, ma per qualche motivo il salto proprio non gli riesce. I primi due tentativi nel turno eliminatorio risultano nulli, entrambe le volte salta troppo oltre la linea di stacco. A disposizione ha più un solo tentativo e allora è proprio Luz che gli si avvicina e gli indica un punto 30 cm buoni prima della linea e gli dice «salta da qui, almeno sei sicuro sia valido. Tanto la distanza la copri lo stesso». Owens lo ascolta e salta 7,64 metri, 50 centimetri abbondanti in più di quanto richiesto per qualificarsi alla finale. 

Long sa perfettamente che in quel momento ha appena consegnato l’oro nelle mani del suo principale rivale, cosa che in effetti avviene poche ore più tardi, ma dietro questo gesto c’è qualcosa che va oltre lo sport. 

Jesse e Luz sul podio

Carl Ludwig Long fisicamente rappresenta il perfetto ariano, l’immagine della Germania che Hitler vorrebbe dare al mondo. Ma Luz è anche un ragazzo borghese di Lipsia, ovvero rappresenta quella fetta di tedeschi che il nazismo ha sempre cercato di estirpare, quelli a cui venivano bruciati i libri. E allora in questo suo gesto si nasconde uno straordinario atto di resistenza, perché consegnare la medaglia d’oro nelle mani di un atleta afroaemricano, a Berlino, nel 1936, vale più di qualsiasi risultato sportivo.

Jesse non restò indifferente a questo gesto e prima del termine della manifestazione si recò nella stanza di Luz e gli chiese se per favore, qualsiasi cosa fosse successa fra i loro rispettivi paesi, loro sarebbero potuti restare amici. E il tedesco fu felice di accettare.

Una volta rientrato a New York, Owens, che oggi verrebbe accolto come un eroe, fu cacciato da sei diversi alberghi perché «qui non si accettano negri». Il settimo acconsentì di dargli una stanza, ma con la promessa che non avrebbe usato la porta d’ingresso principale. 

Il presidente Roosevelt, invece, si rivelò essere troppo impegnato per mandare anche solo un telegramma di felicitazioni all’atleta che aveva conquistato quattro ori olimpici per il suo paese; fatto insolito se si pensa che il tempo per congratularsi con Glenn Morris, oro nel decathlon, lo trovò eccome. 

Jesse Owens, pochi anni dopo, stanco di essere spedito in giro per il mondo e di essere sfruttato dalla federazione americana, si rifiutò di partecipare all’ennesima esibizione in Svezia, finendo così per essere radiato e pertanto, le ultime corse registrate dell’atleta forse più grande del Novecento, sono quelle in cui corse (vincendo) ad handicap contro dei cavalli. 

Jesse vs. cavalli

Luz Long invece dopo le Olimpiadi, forse anche a causa della sua resistenza al Reich, fu inviato a combattere in Sicilia, dove morì fronteggiando lo sbarco degli americani del 1943. Ma malgrado ciò non si dimenticò della promessa fatta a Jesse pochi anni prima, e in una delle ultime lettere dal fronte scrisse

«Dove mi trovo sembra che non sia altro che sabbia e sangue. Io non ho paura per me ma per mia moglie e il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli anche che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. 

Tuo fratello, Luz”.

Francesco Castiglioni

© Credit immagini: link + link + link + link + link

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