Emetto un languido sospiro nell’aria viziata di questa stanza asfittica. Giaccio immobile da quasi 8 ore in questo letto anonimo; le lenzuola senza nome nelle quali mi muovo soffocando la noia non sanno nemmeno il mio nome e, d’altronde, non potrebbero infischiarsene di più.
Che brutto. O meglio, che triste che lui non sappia chi sono. Che io non sia un nome passibile di qualsivoglia emozione agli occhi di tutti i chirurghi che hanno operato sul mio corpo come scultori su materia grezza. Che triste che il chirurgo che mi ha cucita e ricucita come fossi un cuscino imbottito di stoffa – insensibile, inamovibile emotivamente – non si domandi di me ora che, tornato a casa, gode della sua ritrovata routine con moglie e figli. Che triste che io invece stia qui a pensare a lui, a domandarmi se starò meglio e a doverne concludere che, se così fosse, il merito non potrà che essere di quelle mani che mi hanno rappezzata a dovere. Che triste che per lui siamo tutti oggetti, reificati, numeri su un braccialetto di plastica che ci viene appiccicato addosso e che tra qualche giorno riposerà, obliato per sempre, in qualche cassonetto per strada.

Vorrei abbracciarlo forte, ringraziarlo, sorridergli e scoprire quali sono le sensazioni che prova nel non vedere nemmeno in faccia noi pazienti. Nel non ricordarsi di noi negli anni a venire. Mero susseguirsi di corpi stagnanti che fremono nella speranza di tornare a vivere compiutamente. Completamente. Eppure il ginocchio che ha aperto era il mio, era il mio sangue quello che spruzzava il suo camice, era il mio respiro quello che premurosamente monitorava nelle diverse fasi di rattoppaggio. Come fa lui, come può non importargli di me? Come posso solo essere materiale da lavoro?
«Che poi» – mi domando, in questo capriccioso susseguirsi di pensieri irrisolti – «come fa a non fremere d’angoscia nell’operare a mani ferme su un corpo che potrebbe irrimediabilmente degenerare in cadavere qualora la sua precisione lo tradisse?». Che paura per gente come me che a malapena si assume la responsabilità di se stessa. Le mie conclusioni? Ci vuole tanto, tantissimo coraggio, molto altruismo e una passione travolgente per decidere di sobbarcarsi il rischio di vite altrui. Ed è in questo torpore indolenzito che ritrovo la mia gratitudine inespressa per una persona che dispone del mio corpo come strumento da lavoro, ma che ai miei occhi lo salva dal suo altrimenti inevitabile decadimento. Sono come angeli i chirurghi che, nell’adempiere ai loro quotidiani doveri, si prendono a cuore le nostre ossa malmesse.
Gaia Bugamelli
© Credit immagini: Courtesy Elena Martelli + link
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