La CleanClothesCampaign è un network globale orizzontale composto da coalizioni nazionali – tra cui quello italiano CampagnaAbitiPuliti – e coordinamenti regionali, all’interno dei quali collaborano ONG, sindacati, avvocati specializzati nella difesa dei diritti umani e organizzazioni che si occupano di questioni di genere.
La prima linea d’azione della campagna, nata negli Anni Novanta, è proprio quella delle Azioni Urgenti, cioè entrare in contatto diretto con le vittime delle violazioni che, nel caso di queste campagne, sono le donne operaie che lavorano nell’industria tessile, con lo scopo di portare l’attenzione della comunità mondiale sul processo di produzione dei vestiti che indossiamo tutti i giorni, sulle condizioni sociali e ambientali che ci stanno dietro.
La denuncia riguarda le persistenti violazioni dei diritti umani, in particolare dei diritti dei lavoratori, all’interno delle industrie tessili delocalizzate in paesi lontani dal nostro dove la manodopera costa meno. In particolare, concentrandosi intorno a temi come le condizioni igieniche-sanitarie, un salario equo e giusto e un numero di ore di lavoro inferiore.
Insieme alle vittime si ricostruiscono i fatti e si formulano le domande sulle vertenze che poi vengono portate sul tavolo delle grandi aziende.
Il tema centrale è che in queste catene globali della moda ci sono delle responsabilità diverse: dal datore di lavoro dell’industria sita, ad esempio, in Bangladesh che produce solo t-shirt per tutto il mercato europeo ed è la persona che si occupa di pagare le operaie, ai grandi marchi committenti che pagano gli ordini senza preoccuparsi di come e in quali condizioni viene creato il prodotto. Chi ha più potere, anche se indirettamente, determina proprio queste condizioni precarie di lavoro. Infatti, se si impongono prezzi sempre più bassi ai fornitori, questi pagheranno un salario minore ai lavoratori.
L’idea è, quindi, di fare campagne contro i marchi, poiché sono quelli che hanno il potere di cambiare le cose, se vogliono.
È inoltre importante il lavoro di advocacy per governi e istituzioni, perché tutto questo non riguarda solo i privati. I governi hanno la responsabilità di far rispettare i diritti umani, all’interno delle loro costituzioni e delle convenzioni internazionali firmate, alle imprese che agiscono sul loro territorio.
Il cambiamento è difficile e le soddisfazioni arrivano nel lungo periodo, dopo molto lavoro. Una di queste è il tema della trasparenza di filiera: dopo circa 15 anni di campagne diverse aziende hanno accettato di aderire volontariamente al transparency pledge, cioè impegnarsi a pubblicare dati fondamentali della loro filiera, in maniera che siano accessibili da tutti.
Per far evolvere il sistema e il modello di produzione e consumo bisogna che cambi la cultura; è, quindi, importante il ruolo dell’attivismo.
Questo potrebbe essere un buon momento per alcune aziende per ripensare al proprio modello di produzione e per noi per ripensare al modello di consumo a cui aderiamo. Anche noi consumatori, infatti, possiamo cambiare, tramite la consapevolezza e l’informazione. Così anche i governi e le istituzioni possono fare passi in avanti premiando imprese sostenibili e solidali e incentivando cambiamenti verso questa direzione.
Cosa ti spinge a lottare e a portare avanti queste campagne?
«Personalmente mi spinge la fedeltà costitutiva ai miei valori, ai quali non potrei mai rinunciare. Questi miei valori sono fondati sulla Giustizia sociale, un tema che mi ha sempre guidato nella vita fin da giovane. Giustizia sociale significa che quando conosci situazioni di sfruttamento, vulnerabilità e sofferenza c’è un bivio di fronte a te: o chiudere gli occhi e andare oltre, oppure non chiuderli e lottare. Alla fine la mia vita avrà avuto senso se avrò avuto la capacità, il coraggio e la bellezza di stare accanto alle persone».
(Intervista a Deborah Lucchetti, presidente della CampagnaAbitiPuliti Italia)
Maddalena Fabbi
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