È sera. Tornare a casa in macchina è cantare a squarciagola o chiudersi in un
mutismo selettivo. È maledire il buio che arriva così presto a febbraio e scrutare
assorta il tramonto che crolla al largo dell’orizzonte ad aprile. Un mare che non
riuscirò più a guardare allo stesso modo. Quando rientriamo, tutte togliamo le
scarpe e come un fiume in piena invadiamo una casa fredda ma sempre accogliente.
Spostiamo gli stendini sparpagliati nel salotto, c’è chi afferra un frutto, chi continua
a starsene sulle sue. Fortunatamente c’è sempre chi sta ridendo e ci contagia con la
sua allegria. Non di rado ridiamo per un racconto di quanto avvenuto durante
queste giornate.
A turno si prepara la cena per tutte. Un gesto di cura collettiva inestimabile. Se
qualcuno mi chiedesse come si decideva chi avrebbe dovuto cucinare quella sera
tutt’ora non avrei una risposta. Forse non l’avrei neanche se mi chiedeste come si
stabiliva l’ordine per fare le docce. O quale film scegliere per poi addormentarci di
fronte a quel telone bianco improvvisato. Forse sarebbe più facile confessare che a
volte il non potere mai essere da sole non è stato sempre facile. Anzi. Sei tenuto a
fronteggiarti con te stessa, a mettere in discussione i tuoi limiti. A ricercare
costantemente un equilibrio in una situazione che prevede un adattamento che non
ci viene richiesto dalle nostre esperienze quotidiane. Questo straordinario non ti
drena, ma ti riempie con le sue voci, con gli sguardi di chi non si stanca mai di
comprenderti, di stare lì a trovare un senso alle tue divagazioni.
Non ricordo un altro periodo nella mia vita in cui ho potuto sempre semplicemente
aprire la porta della mia stanza – spartana e luminosa – muovere pochi passi e
sentirmi invadere da questi pensieri insaziabili espressi da voci squillanti. Scivolare
verso una tavola che è stato il centro nevralgico di ogni nostra conversazione. Di
discussioni accese, stimolanti, animate. Una sala da pranzo testimone di questi
scambi umani che hanno continuato a riempirci. Uno spazio al di fuori dei nostri
tempi. Mi capita spesso di pensare alle esistenze dei nostri vent’anni. A quanti spazi
di confronto ci si siano stati sottratti. A tutto questo tempo da soli che ci atrofizza. Ci
isola e ci allontana. Lo penso soprattutto quando anche questa sera a cena ci guardo
assorta e mi rendo conto di che spazio di resistenza sia questo. Una resistenza che
contro ogni tendenza generale di impoverimento dei rapporti collettivi ci inchioda
qui, anche questa sera, a sviscerare tutti i nostri pensieri su Corinto, sul nostro
lavoro, sulla società.
Elsa Rizzo