Ti sei appena messo il cappotto leggero e hai appena allacciato le scarpe, sei pronto per uscire e questa volta non ti dirò di coprirti per bene. Scendi le scale una ad una.
«Mamma, cosa significa apocalisse?» mi chiedi. Hai già sei anni, ma non hai ancora smesso di circondare la mia schiena con il tuo braccio destro, in modo che io possa stringerti da dietro al collo.
«Sai quei film che guarda sempre papà, Leo?».
Salti da uno scalino all’altro, sai già che non ti rimprovererò. Salti da un discorso all’altro, sai già che non mi arrabbierò.
«Mmm, quelli bui?» mi rispondi. Sì, quelli bui, Leo, quelli che non vorrei vedere mai, quelli per cui tengo accesa la luce e quelli per cui litigo con papà. No, Leo, non ho mai smesso di tenere la abat jour sul comodino vicino al lettone. Mi basta voltarmi di poco, allungare la mano sinistra e premere di fretta l’interruttore. Così il buio scompare, ma nei film che guarda papà il buio c’è ancora.
«Esatto!» ti dico, ma non c’è niente di esatto. Niente di esatto nel buio. Niente di esatto nell’apocalisse. Niente di esatto in questo mondo che rotola.
«E allora perché oggi quei ragazzi tenevano in mano quelle parole?». Continui a stritolarmi con il tuo braccio così piccolo rispetto al mio, non dovevo metterti al mondo.
«Quali parole?». Mentre te lo dico sfili il tuo braccio dalla mia schiena. Lo senti il suono che fa marzo? Cinguettii che riecheggiano tra le finestre delle case del nostro palazzo, le ruote delle biciclette tirate fuori dai garage che cigolano contro i sampietrini e le catene delle altalene del parco vicino a casa. Ti piace passeggiare con me, non ti vergogni a dirlo ai tuoi compagni di classe e lo dici anche a me. Ti piace passeggiare con me e farmi quelle domande che mi porto sotto al cuscino la notte. «Smettiamo di immaginare l’apocalisse!» mi rispondi. Sì, Leo, te lo prometto, l’apocalisse la smettiamo di immaginare davvero. E da quando ci sei tu, io l’apocalisse non la immagino più.
Federica Mangano
