«Vedi che non è giusto, papà. Perché si muore ancora?» aveva urlato Aida, con il viso incastonato tra le sue braccia ruvide e il suo ventre. Il contatto con la pelle scabra l’aveva infastidita, anzi, a dire il vero, la sua presenza la tormentava. Ma più di ogni altra cosa l’aveva stravolta la sua risposta: ne avrebbe compreso solo molti anni dopo il calco. Parole precise si erano infilate nella sua testa bambina. Rivendica ancora la sua azione: un gesto folle che papà non le ha mai perdonato. «Spiegaglielo tu, mamma, cosa significa imparare a chiamarlo amore» avrebbe sussurrato a Chiara, se solo fosse riuscita a sentirla.
In quel caldo pomeriggio invernale di molti anni prima, Torino sembrava una grande festa: tamburi a scandire il ritmo, vociare confusi che si alternavano ai fumogeni, alle molotov e a parole forti gridate al vento. Si contestava tutto di nuovo. Dai televisori delle case vicine si sentivano dialoghi animati: le voci dalle radio libere, la famiglia Cunningham e qualche canzone della ventisettesima edizione del Festival di Sanremo in sottofondo. Corso Francia era gremito di giovani aggrovigliati. Il papà Carlo e sua figlia Aida, visti da fuori, potevano quasi sembrare parte di quel desiderio collettivo. Aida portava la gonna rosa rattoppata e spiegazzata, con i collant bianchi e i sandali acrilici pieni di terra. Carlo, con il suo eskimo e il suo dolcevita sformato, si rifletteva sulle vite dei militanti. Un desiderio collettivo.
Tra le sirene dei poliziotti accalcati intorno alla strada, mentre la fiumana di giovani si allontanava verso Via Po, Carlo si era distratto a leggere gli striscioni che sventolavano in alto: “La libertà è nella democrazia”. In un attimo Aida aveva lasciato la sua mano. Sgattaiolata chissà tra quale sogno – e rincorrendo cosa poi? – Carlo l’aveva persa. Di colpo non l’aveva più trovata. Erano stati attimi confusi, le urla dei manifestanti a sovrastare tutto, perfino l’urlo convulso di Carlo: una domanda che non aveva trovato risposta. «Dove sei?». Aida non l’aveva mai sentita. Un riecheggio tra i portici torinesi,
Carlo non ricorda neanche più cos’era successo dopo. Aveva corso all’impazzata, questo non se l’è dimenticato. Poi all’improvviso un’idea: Sofia, una ragazza fermata per caso, gli aveva offerto il suo megafono. Aveva stravolto così tutto quanto. Carlo e Sofia da fuori potevano sembrare due amici, a Torino per cercare di cambiare il mondo. Intanto il nome di Aida si infilava nelle vie, attraversava le piazze e scivolava sui sampietrini. Qualcuno divertito rispondeva a quel grido: «La costituente, la democrazia e chi ce l’ha.» Ignari che Rino Gaetano non aveva niente a che vedere con ciò che stava succedendo. Ma il ritmo di quella canzone, aveva riempito il corpo di Sofia, che ora cantava a squarciagola: «Aida, come sei bella!». Forse era stata quella musica a ritrovare Aida al posto di Carlo e Sofia o forse era stata la bambina a volersi far trovare. Nella sensazione che si poteva percepire nell’aria, la paura per la perdita si mischiava a un profumo nuovo. I capelli lunghi della ragazza, lasciati sciolti, rincorrevano la bambina insieme a loro. Non si erano mai incontrati, fino a quel momento. Un gesto di estrema gentilezza aveva convinto Carlo che a lei si poteva affidare. Nessuno dei due, né Carlo né Sofia, si ricordano come erano arrivati fin lì. Chiamato dal rumore di un pallone che entra in porta, Carlo aveva attraversato il grosso portone di un palazzo che non aveva mai visto prima. Sofia l’aveva seguito. Accompagnata dalle risate bambine e da un forte schioccare di mani, che si toccano in aria. Tutti e due erano rimasti stupiti nel vedere davanti a loro Aida. Lo sguardo di Sofia si era subito incrociato a quello della bambina. Si erano riconosciute. Fino a quel momento così lontane, ora si trovavano a qualche metro di distanza. Due sconosciute ferme in piedi nel cortile si guardavano negli occhi per la prima volta. Negli anni sarebbero diventate così simili, da non riconoscere più chi sussurrava cosa. «Quanto assomigli alla tua mamma» azzardava qualcuno, inconsapevole di ciò che le legava davvero. Mentre quella magia riempiva il cortile, Edoardo, il bambino che aveva accolto nella sua casa Aida, osservava tutto con meraviglia. Da Edoardo, negli anni, non si sarebbe mai separata. Stava anche lui fermo, in piedi nel centro del cortile di casa sua, con la felicità appiccicata addosso per il gol appena fatto e con l’improvvisa paura di perdere Aida, quella bambina appena conosciuta.
Tutti e tre, Sofia, Edoardo e Aida, erano rimasti sconvolti nel vedere il gesto istintivo di Carlo. Aveva tirato per un braccio sua figlia e alla sua domanda ingenua aveva gridato: «Non si può vivere a testa in giù, Aida».
Te lo prometto, mamma. Non voglio vivere a testa in giù, ma a stile libero, come Papà, che attraversa le vasche della Piscina in Via Galileo Ferraris.
Federica Mangano