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«Daje, che quando arrivi a Bucarest ti aspettano tutti quei forni buonissimi» – mi dice Matteo prima di partire.
E in effetti è proprio così. Appena metto piede nella capitale vengo accolta da un frastuono di profumi. Guardo in alto e le luci della mattina – che s’è appena fatta spazio tra la brina – attraversano le volte scure di Gara Bucareşti Nord.
Mi scrocchio il collo, bloccato dal cuscino duro della mia cuccetta, allaccio lo zaino e attraverso Bucarest con un’intenzione nuova. Mi ripeto tra me e me di infilarmi nei vicoletti, di evitare le piazze grandi e i monumenti principali. Già visti l’ultima volta con la pioggia che sbatteva contro il finestrino del bus e che mi aveva fatto ripartire con un senso di incompletezza, per non essere riuscita ad apprezzare questa grande metropoli. Elsa cercava di farmi cambiare idea, ma mi ero intestardita e messa in testa che proprio non mi piaceva. E così quel senso di confusione mi aveva accompagnata fino a Cluj e non se n’era mica andato via.
La metro la domenica mattina alle otto e mezza è vuota, mi sento circondata dalle pareti grigie in cui mi ero sentita un po’ soffocare l’ultima volta. Mi ripeto di nuovo tra me e me di lasciar passare quella prima impressione, che è diventata presto pregiudizio nella mia mente. Provo ad andare oltre, un po’ più lontano e via, salto sulla metro con un punto di vista nuovo.
Cerco di farmi parte del tempo che è passato e che continua a scorrere. Ripercorro immagini di storia recente che ho visto in quei documentari e senza volerlo mi ritrovo davanti al Museo di Storia di Bucarest. Ero in cerca di Piața Revolutiei e mi ritrovo in quella rivoluzione. Nella mia rivoluzione. Le parole, le foto e le storie di chi era lì mi fanno sentire parte, di essere proprio lì. Dentro alla sofferenza. Esco da quel pezzo di storia con la voglia di vedere ancora, di immergermi completamente tra quelle strade grigie e tra quei palazzi immensi.
Esco anche da quel pezzo di storia e la mia storia piano piano si fa spazio in me, lascio entrare anche la mia dannata voglia di libertà a tutti i costi che mi spinge ancora una volta a camminare da sola. Continuo ad attraversare le strade con mille pensieri in testa, mentre finalmente il sole inizia a riempire il cielo. Alzo la testa e giro la città con il naso insù. Piano piano quei vicoli che mi ero messa in testa di attraversare si aprono davanti a me e la strada mi trascina ancora più lontano. Mi infilo nei vicoletti, evito le piazze grandi e i monumenti principali. Cambio prospettiva. Cambio punto di vista e quelle immagini che guardo a testa in sù appaiono così diverse dall’ultima volta. Rivedo i contrasti, i palazzoni sovietici e grigi e non mi lascio sfuggire le mie prime impressioni, ma ‘sta volta le riempio di vicoli con ombrelli colorati, con strade ciottolate che s’intersecano nella città vecchia di Lipscani e di muri che si raccontano.
Guardo fuori dalle finestre dell’aeroporto di Otopeni – ‘sta volta un altro po’ mi sarei fermata, avrei continuato a vagabondare insieme a me e ai miei pensieri – e penso che a volte sì, basta cambiare il lato da cui si guardano le cose, che poi è sempre tutto lì, che se ti guardi attorno hai sempre avuto tutto sotto il naso.
E ti fermi. Ma per ripartire, ancora una volta.
Federica Mangano
© Credit immagini: Courtesy Mishel Mantilla