Forse, se li fisso abbastanza intensamente, il soffitto della nostra classe deciderà finalmente di crollare loro addosso e la smetteranno di ridere. Mi devo solo concentrare un altro po’ e… no, non funziona. Nessun calcinaccio stregato, anzi prendono a ridere più forte fissandomi e indicandomi come se fossi un non so quale buffo animale esotico dietro alle sbarre di uno zoo, sussurrandosi qualcosa all’orecchio. Colgo insulti e prese in giro, così decido di distogliere lo sguardo e affondarlo in un punto imprecisato della cattedra. Magari se non presto loro attenzione, scompariranno, oppure qualche essere divino misericordioso mi farà diventare invisibile, quel tanto che basta per imboccare la porta d’ingresso e scappare via, il più lontano possibile da qui.
«Davide?».
La voce irritata del prof di matematica mi fa capire che, evidentemente, sono ancora visibile. Osservo alternativamente il pannello della lavagna e l’esercizio di algebra appena cominciato. Poi torno a dedicarmi a quella deliziosa parte di bordo scheggiato della cattedra, pregando che questa dannata messinscena finisca. Che senso ha questa stupida interrogazione? Lo sanno già tutti che ormai sono bocciato, non recupererò mai. Le solite ordinarie parole di ammonimento del prof mi scivolano addosso e non presto loro attenzione. Non annuisco nemmeno per fingere di ascoltarlo, ho solo in testa l’eco delle risate dei miei compagni, che mi fa venire voglia di gridare e massacrarli tutti di botte, mollare anche un pugno al prof per farlo tacere e smetterla di fomentare tutto questo. Eppure rimango impassibile, immobile, il respiro calmo e controllato, il volto inespressivo, mentre qualcosa nella mente mi urla di reagire in qualche modo, ma mi trattengo.
Chi mi appoggerebbe? Nessuno, anche se avessi ragione. Sì, perché a loro viene facile ignorarmi e deridermi, seguire quella massa di idioti che inspiegabilmente ce l’hanno con me, fregandosene di quello che sento. Sì, bravi, tanto Davide è fatto d’acciaio, non ha un’anima, non prova emozioni come gli altri, le vostre parole crudeli non lo scalfiscono. Invece affondano tutte dolorosamente, solo che ho la decenza di non vomitare loro addosso tutto quello che sento ogni dannato secondo a scuola. Mi sento soffocare e stringo i pugni mentre torno al posto e i ragazzi riprendono a ignorarmi oppure mi lanciano qualche occhiata senza nascondere minimamente il loro disprezzo. Solo tre ore. Tre ore e potrò correre via, rinchiudermi nella mia stanza, piangere e poi ricominciare a comportarmi come se nulla mi toccasse.
All’intervallo, Silvia continua a guardarmi. Lei è una di quelli che non ride, ma che non fa comunque nulla per difendermi. Ricambio l’occhiata senza capire. Si avvicina, timida. Mi abbraccia davanti a tutti nel silenzio generale e mi accosta piano le labbra all’orecchio, esitante, alzandosi sulle punte dei piedi.
«Scusa, Davide. Ti voglio bene.» – mormora.
Ora so che non sarò più solo.
Elena Rossi
© Credit immagini: Courtesy Mishel Mantilla