Aveva deciso di lasciare quella giungla di città per concedersi un weekend di esplorazione solipsistica nelle valli del Nord. D’altronde, non c’era backpacker (viaggiatori come lei, uno zaino in spalla, comodo per spostarsi di continuo, e tutto il resto lasciato a casa) incontrato finora che non le avesse esplicitamente consigliato di navigare bene quelle terre prima di muoversi in giù, perché, a detta di coloro con cui aveva avuto occasione di parlare, il Nord del Vietnam è incomparabilmente più bello del Sud del Paese. A viaggio concluso, la sua opinione è che non si tratti di una verità universale, ma che sì, deve ammetterlo, la parte settentrionale di quella longilinea nazione anche a lei ha rubato il cuore.
Il centro educativo per cui faceva la volontaria, che era anche la casa in cui viveva, le concedeva di allontanarsi da Hà Nội nei weekend, e rotolarsi nel letto non era proprio nella sua indole. Perciò decise di spostarsi, da sola. Non che le alternative fossero molte, considerando che l’altra volontaria che fino a qualche giorno prima le dava una mano era partita quella mattina alla volta dell’India. In fondo, andava bene così, d’altronde non poteva fare a meno di sentirsi più intimamente connessa ai territori che esplorava quando vi ci si addentrava senza la compagnia di qualcuno.
Dopo essersi consultata con la famiglia che la ospitava e dopo aver navigato il web alla ricerca di un luogo che non fosse assaltato quotidianamente da turisti armati di smartphone e macchine fotografiche (per quanto difficile da concepire ora, di assembramenti del genere ce ne stavano parecchi in Vietnam ai tempi del non-Covid), optò per Ba Be Lake, un parco nazionale a 250 km a nord della capitale, relativamente sconosciuto a detta della sua host mum vietnamita. 7.610 ettari e 600 tipi di piante erano quello che le ci voleva per staccare la spina dal traffico assordante di quella metropoli che non dorme mai. E poi, era relativamente vicino, quanto sarebbero state, un 2-3 ore di pullman?

Per chi di voi avesse intenzione di intraprendere lo stesso cammino, vale la pena menzionarlo, per correttezza quantomeno: si tratta più o meno di 7 ore di viaggio a una velocità da crociera che si aggira intorno ai 30 km orari, su un pullman di linea che sobbalza a ogni crepa dell’asfalto, con l’aria condizionata a palla e pendolari che si fanno lasciare giù a caso lungo il tragitto, chiedendo al conducente di aprire le porte sulla curva di un tornante o su un rettilineo apparentemente nel mezzo del nulla. Va anche detto, però, che ci sono altri modi di raggiungere la riserva, specialmente se si parte dalla capitale del Paese. Non che non lo sapesse, la sua era stata una scelta consapevole. Le piaceva di più esplorare così, convinta che altrimenti non avrebbe vissuto esperienze autentiche. Come puoi dire di aver penetrato la cultura di un luogo se viaggi su un pullman climatizzato e pulito con altri turisti bianchi? Ci si sposta rigorosamente come si spostano gli altri vietnamiti intorno a te.
Se avesse optato per una delle millemila opzioni generalmente riservate ai turisti, si sarebbe però molto probabilmente risparmiata l’imbarazzo di salire su un pullman di pendolari vietnamiti che ti osservano scrupolosamente manco fossi la reincarnazione del Buddha. Limitarsi a osservare? Figurarsi… E così, all’attenta dissezione visiva seguirono commentini vociferati, indifferentemente ad alta o bassa voce, più o meno per tutta la durata del viaggio. Conditi da passeggeri che distendevano il braccio nell’indicare quello strano essere bianco e visibilmente non vietnamita a coloro che salivano a bordo ogni volta che il pullman si fermava a raccattare qualcuno lungo la strada.

Avendo intuito la mancata esistenza di quelle che era solita chiamare ‘fermate’, chiese al conducente (in un inglese gesticolante misto a vietnamita tradotto dallo schermo del cellulare) a che punto della traversata scendere per raggiungere il Ba Be National Park. Dopo un animato consulto tra i passeggeri del mezzo, tutti visibilmente eccitati di assistere alle vicende di quell’aliena e del suo zaino, le venne comunicato di sedersi fino a fine corsa, che poi qualcuno l’avrebbe accompagnata in moto dalla stazione dei pullman alla riserva. Autostazione? Ma neanche per sogno; il pullman si fermò letteralmente nel parcheggio del cortile della casa del conducente. Spenti i motori ed evacuati i superstiti, la nostra ingenua esploratrice si ritrovò nel bel mezzo del niente, a notte fonda. Il conducente se ne andò a mangiare, delegando ad un amico il compito di far pervenire quella turista fuori di testa a destinazione. Dopo contrattazioni varie circa il prezzo del tragitto e dopo una mezz’ora intensa in sella a quella motocicletta (trascorsa sudando freddo nella speranza che lo sconosciuto non la sequestrasse, ma la portasse effettivamente dove aveva chiesto di andare), venne scaricata davanti alla porta di una palafitta in legno.
Non una di quelle capanne stile cartellone promozionale vacanze caraibiche, ma una costruzione su 2 piani, l’ultimo all’altezza della strada. Sicché, che fosse una palafitta, lo si capiva solo vedendola, o dal lago, o di sbieco dalla strada. Dopo aver bussato alla porta, il misterioso accompagnatore si intrattenne qualche minuto col proprietario di quella locanda, che evidentemente conosceva, prima di dileguarsi nella notte sul suo veicolo a due ruote.
Fu accolta in vietnamita. Grazie al cielo ho ricaricato l’abbonamento del telefono prima di partire, pensava nel digitare compulsivamente su Google Traduttore frasi elementari che sperava venissero tradotte il più fedelmente possibile. E no, per quanti di voi se lo stessero domandando, imparare il vietnamita non è esattamente come imparare lo spagnolo o il francese, dunque le sue competenze linguistiche in quel Paese erano meno di zero. Tranne che per il cibo: mangiando in giro ogni giorno, ormai aveva quantomeno imparato a riconoscere le parole zuppa, manzo, pollo, gamberi. Fu accolta in vietnamita e fatta sistemare in una stanzina 3x3m: le pareti tante sottili canne di bambù e il letto contornato da una zanzariera che assumeva una parvenza quasi regale. Si sentiva al sicuro in quel nido di legno. Era tardi, il sole era calato da un pezzo e i confini del balcone della locanda nella sala da pranzo/reception/sala hobby/unicastanzaaltradallecameredaletto si mescolavano al buio della notte. Le era stato salvato qualcosa da mangiare, quel qualcosina con cui si sarebbe più che abbondantemente sfamata una famiglia di 5 persone: riso bianco, verdure, frittate (sì, plurale), arachidi tostate grandi come palline da ping pong e timballi di carne difficili da descrivere, sia per la consistenza che per la forma, alle quali era totalmente disabituata. Ah, se era buono il cibo vietnamita. È un po’ come in Italia lì, ogni regione ha le sue specialità, una commistione di sapori introvabile o inevitabilente degradata se assaggiata qualche km più a Sud. E a lei questa cosa di non rimangiare mai lo stesso cibo faceva impazzire di felicità. Aveva assaggiato più piatti nell’ultimo mese che nel resto della sua vita precedente. Soddisfatta e inebriata dalla calorosa accoglienza, si ritirò nel suo stanzino subito dopo cena, il sonno che lo piombò addosso sfiorato il materasso.
La mattina seguente si svegliò presto, disturbata da una radio, percettibilmente a qualche passo a lei, probabilmente qualche casolare più in là. Scivolata in una t-shirt e un paio di pantaloncini, si attivò alla ricerca del proprietario del luogo (chiamarlo ostello/hotel/B&B è impensabile, sono micro-pensioni gestite da famiglie locali, cosiddetti ‘home-stay’ per noi dell’altro mondo) con il quale si era accordata il giorno prima per una visita del parco nazionale. O la moto o la barca: il parco te lo visiti da sola nel primo caso, accompagnata da uno dei nostri nel secondo. Contrattato il prezzo per un itinerario in barca di mezza giornata, optò per quello la mattina, per la motocicletta nel pomeriggio.

L’iniziale imbarazzo nel ritrovarsi a essere l’unica passeggera di quella zattera a motore, lasciò spazio alla contemplazione meravigliata di quei luoghi apparentemente desolati. Non si udiva nessun rumore se non quello sovra tono del motore a elica che sputacchiava un fumo nero denso, il quale andava dissolvendosi nell’azzurro sopra di lei. Il lago era piatto, pareva olio, increspato solo dal penetrare della prua nell’acqua verdognola. Credeva che la gita si limitasse a quello: a navigare quelle acque semi desertiche, lo sguardo perso a osservare insenature e lo sterminato distendersi di piante in ogni dove.
Fu dopo una mezz’oretta buona che la barca si accostò alla sponda, il suo accompagnatore spense i motori e, aggrappato a una cima penzolante da un albero, le intimò di scendere. No, non intendeva terminare così quell’escursione naturalistica, ma la invitava a percorrere il breve sentiero, visibile appena tra le foglie sopra di loro, per raggiungere lo spiazzo sovrastante. Incuriosita, non se lo fece ripetere due volte e, accelerando il passo in salita, si inerpicò su quello sterrato pedonale, fino a raggiungere uno spiazzo a qualche minuto di distanza. Wow, punto a capo.
In mezzo a quella giungla selvaggia, una radura pettinata come il giardino di cui sua nonna si prendeva tanta cura in Italia. Aiuole ordinatamente disposte a destra e sinistra di un breve camminamento su cui erano piantate in fila tante pietre piatte, a coppie, le une davanti alle altre, conducevano a un edificio incappellato da bandierine colorate. Un tempio. Di templi buddhisti ne aveva visti tanti, tantissimi, e allo stupore che aveva provato nel visitare il primo, era subentrata una sorta di familiarità e senso di sicurezza nell’imbattersi in uno di quei luoghi silenziosi e mistici, tanto che se li andava a cercare di proposito nelle sue peregrinazioni cittadine ad Hà Nội. Un tempio così però le era nuovo; un edificio costruito lì, nel cuore della natura, piccolo ma immacolato nella sua sacralità. Sebbene provasse disgusto di sé nell’omologarsi ai turisti irrispettosi dei culti altrui, non potè fare a meno di scattare qualche foto, premuratasi che non ci fosse nessuno a osservarla. Era una cosa troppo singolare per correre il rischio che la sua memoria se ne dimenticasse un giorno.
Tornata alla barca, notò l’avvicinarsi di un’altra zattera a poche centinaia di metri: ma allora non era sola, i turisti c’erano eccome. Passabile dai, era effettivamente il primo contatto con il mondo altro da quando aveva varcato le soglie di quel paradiso naturale. Tornata alla base, le fu fatto trovare un tavolino allestito con ogni ben di Dio sulla terrazza/salotto. Sbocconcellando qua e là all’inizio e divorando a quattro palmenti tutto quanto le era stato preparato un attimo dopo, si perse a osservare il lago intorno a lei. Il fatto di trovarsi su una palafitta le piaceva: un po’ come stare su una nave in mezzo all’oceano, meno il mal di mare. Figata. Il sole era sparito, solo per il momento sperava, oscurato da qualche nube bianchissima, apparentemente innocua e non minacciante pioggia. Che poi, anche lì, se te ne vai in Vietnam nella stagione delle piogge, metti in conto di armarti di pazienza e K-way, tanto che, dopo un paio di giorni, andare in giro sotto l’acqua non è più nemmeno un fastidio.

Senza sole quel posto trapelava una ineffabile nostalgia, un senso di vuoto e di manchevolezza che lei non riusciva a spiegarsi. Gli alberi non brillavano più, erano di un verde spento; il lago si era ri-colorato, di un grigio muto, triste. Era come se qualcuno si fosse succhiato via i cromatismi di tutto ciò che fino a qualche minuto prima emanava di luce propria.
Rinfrancata dal pranzetto succulento, decise di non perdersi d’animo e, fattasi coraggio, si diede all’escursione in motocicletta senza aver concluso la quale si era ripromessa che non sarebbe tornata ad Hà Nội. Tutti (letteralmente chiunque) usano questo mezzo per muoversi in Vietnam, tanto che pare ci siano più motociclette che persone. Il che non può che significare che alcuni ne posseggono più di una e che lei non poteva lasciare quel Paese senza averne fatto esperienza. È qualcosa al contempo curioso e affascinante lo sciame di motorini che fluisce da ogni dove e per ogni direzione nelle grandi metropoli del Vietnam: un fracasso disordinato e confuso per chi viene da fuori, il consueto vivere quotidiano per chi è di lì.
Trovato il proprietario della home-stay, si fece accompagnare alla sua vetturina: uno di quei trabiccoli da motocross, probabilmente nemmeno chissà quanto professionale per chi se ne intende, decisamente too much per lei che l’unico mezzo simile che aveva avuto occasione di guidare era stato il motorino di sua mamma, per una distanza di letteralmente 200m, quando era più piccola e friggeva dalla voglia di provarlo. Messi da parte scetticismo e ripensamenti vari, decise quantomeno di darsi una chance: arrivata da sola dall’altra parte del mondo, quanto vuoi che sia difficile navigare gli sterrati di questa meraviglia di posto in sella a quel coso?

Tutto bene, in fondo. Benissimo, avrebbe commentato, mentre sfrecciava a tutta birra sui tornanti asfaltati che congiungevano le diverse ramificazioni in terra brulla del parco nazionale. Aveva da sempre considerato la corsa, e lo sport più generalmente, come le uniche fonti di decompressione efficaci per i suoi neuroni convulsi, ma quel giorno, sul sedile in pelle mangiucchiata di quel ronzino a motore, non poteva che condividere il sentito di coloro che associano alla motocicletta l’adrenalina allo stato brado. Il sole era tornato a splendere illuminando del verde più fitto le risaie sterminate che si estendevano a perdita d’occhio nell’abbraccio delle montagne circostanti. Non c’era nessuno in giro, e si sarebbe quasi dimenticata di coloro che abitavano quelle terre se non fosse stato per i paesini arroccati ai margini delle strade che si ritrovava a dover attraversare di continuo.
Tutto bene, benissimo, se non fosse stato per quella pozzanghera di melma stagnante sullo sterrato a 100m dal suo allora domicilio, una pozza d’acqua impattando la quale con le ruote del suo diabolico mezzo, perse l’equilibrio (la sua totale incapacità di guidare una moto fece il suo), cadendo rovinosamente a terra. Sia mai che cadesse e basta: no, nel suo rovinoso catapultarsi sulla strada non staccò mica la mano dall’acceleratore, così che il motorino le sfregò contro prima di accasciarsi anch’esso a pochi passi da lei. Va bene che ho una soglia del dolore alta e non dovrei sottovalutare certi incidenti, ma a me non pare una cosa grave. Riavutasi più dall’incazzatura per essere collassata a pochi metri da destinazione che per l’effettivo dolore della caduta, trascinò zoppicante il suo non più tanto amato mezzo fino alla home-stay, parcheggiandolo fuori dalla porta. Acqua ossigenata? Una benda medicale? Eeeeeeh, ma mica siamo in città qui. Ah OK, quindi l’unica cosa che potè fare fu lavare bene il sangue incrostato e spalmarsi addosso una crema bianca antisettica fastidiosamente appiccicosa. Non si meravigliò nemmeno molto quanto il mattino seguente si risvegliò con un ginocchio blu gonfio come un palloncino a elio che a stento riusciva a piegare; e nemmeno ci soffrì più di tanto considerando che 1) tornata ad Hà Nội la sua host mum avrebbe sicuramente trovato il modo di aiutarla a medicare quello scempio 2) quello di cui aveva goduto la sera precedente ancora le dava i brividi.
E per chi si stesse facendo strane idee, cliché stereotipati della ragazza in vacanza da sola, dichiariamo subito che di quella pensione lei era l’unica ospite. E che il proprietario era un uomo decisamente troppo in là con gli anni per i suoi gusti, nonché felicemente sposato e monogamo. Il genere di piacere al quale si fa riferimento riguardava invece l’aver goduto di uno spettacolo inenarrabile. Di un tramonto come mai prima d’ora ne aveva visti in vita sua.

Accoccolata sull’amaca appesa nel salotto/balconata/reception/sala da pranzo, aspettava che la crema antisettica si rapprendesse all’aria aperta, prima di rifugiarsi a letto dimentica di quell’epilogo di giornata. Il sole stava calando, non era già più visibile, ma i paesaggi intorno riverberavano ancora della sua luce fioca. I colori non erano già più brillanti come nel pomeriggio, ma egualmente intensi seppur tenui e caldi nel loro ammorbidirsi di fine giornata. Dalle montagne saliva soffuso un rosa deciso e pizzicato di arancione, che si mangiava la superficie del lago sottostante, calmo e incrinato soltanto, di tanto in tanto, da qualche raffica di vento più forte delle altre che ne punzecchiava la superficie. Era una vista meravigliosa e indescrivibilmente pacificante, che le faceva venir voglia di congelare quell’istante, ritargliarlo e ficcarselo nel taschino della giacca a vento. Di modo da averlo sempre a portata di mano; ogni volta che avrebbe voluto godere ancora di quello splendore. Certo che la natura è mozzafiato nella sua nudità cruda. Non sapeva dire se avesse voglia o meno di fare ritorno al chiasso assordante delle strade di Hà Nội; non che le dispiacesse, ma anche lì non si stava poi tanto male. Una cosa era certa: avrebbe attinto nella sua memoria a quell’esperienza di ritrovata calma ogni volta che si fosse trovata di nuovo a dover attraversare la strada col terrore di essere investita dalla miriade di motorini lanciati in ogni direzione che le si paravano contro.
Gaia Bugamelli
© Credit immagini: Courtesy Gaia Bugamelli + Mishel Mantilla