Oggi, 6 febbraio, ricorre la Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili. Secondo le statistiche, nel 2020 circa 4 milioni di ragazze tra i 4 e i 14 anni hanno subito la mutilazione dei loro genitali. È una tradizione antica, diffusa prevalentemente nel Corno d’Africa e nelle comunità di religione musulmana, nonostante il Corano non la riconosca come pratica religiosa. Le mutilazioni alterano e danneggiano i genitali femminili per ragioni non mediche, mettendo a grave rischio la salute e l’integrità psico-fisica delle donne per il resto della loro vita. La procedura comporta la rimozione del clitoride o il taglio parziale o totale delle piccole e grandi labbra fino all’infibulazione, la quasi totale chiusura dell’orifizio vaginale.

Le mutilazioni riflettono una radicata disuguaglianza di genere e rappresentano un’estrema forma di discriminazione: sono infatti state riconosciute come violazione dei diritti umani a livello internazionale. L’Onu ha inserito l’abolizione della pratica tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, appoggiati dall’Unione Europea, dall’Unione Africana e dall’Organizzazione Islamica per la cooperazione.
Nel 2020 il Sudan ha dichiarato illegale questa tradizione, prevedendo una pena di tre anni per chi la pratica. La legge consente alle donne di vivere con dignità, tutelando anche le madri che che prima erano costrette a mutilare le figlie contro la loro volontà. Il provvedimento rappresenta una svolta importante, tuttavia gli esperti avvertono che una sola legge non sarà sufficiente a porre fine alla pratica. In molti paesi la mutilazione dei genitali femminili è considerata un pilastro fondamentale della tradizione e del matrimonio ed è sostenuta sia da uomini ma anche da donne: percepiscono il taglio come una prassi comune, effettuata dagli anziani del villaggio per rendere le donne pure fino al matrimonio e controllare il loro corpo, la loro sessualità e la loro generatività.

«Per oltre 3000 anni le famiglie hanno creduto che una figlia non circoncisa non è pulita, perché quello che c’è tra le nostre gambe è sporco. Quindi deve essere rimosso, cucito come prova della nostra verginità e virtù. Dopo il matrimonio il marito prende una lama o un coltello e taglia per aprire, prima di costringere la sua sposa ad avere un rapporto. Una donna che non viene circoncisa non può sposarsi e di conseguenza viene espulsa dal suo villaggio.»
Queste sono le parole di Waris Dirie, protagonista del film biografico tedesco Fiore del deserto, uscito nel 2009 e diretto da Sherry Hormann. Waris – che in somalo significa proprio ‘fiore del deserto’ – nasce nel 1965 da una famiglia nomade somala, da cui decide di scappare a tredici anni dopo essere stata venduta e promessa sposa a un vedovo sessantenne. Attraversa il deserto a piedi e arriva a Mogadiscio dove, grazie all’aiuto di alcuni parenti in città, ottiene i documenti per arrivare a Londra. Qui vive per strada, studia la lingua, lavora come cameriera in un ristorante. Un giorno per caso incontra il famoso fotografo Terry Donaldson, che la convince a posare per alcune riviste di moda. Il suo destino cambia all’improvviso.
Nel 1996 la giornalista Laura Ziv, di Marie Claire Usa, chiede a Waris di raccontare il momento che le ha cambiato la vita, aspettandosi di sentire l’incontro con il fotografo. Ma Waris ha in mente altro: racconta al mondo occidentale di quando, da piccola, fu infibulata. È solo a questo punto che Waris trova il coraggio di denunciare la propria storia, diventando simbolo e portavoce della campagna Onu contro le mutilazioni femminili.
“Quando ero piccola dicevo che non volevo più essere donna, perché in Africa è davvero doloroso e difficile da sopportare. Ora sono fiera di chi sono, ma mi chiedo, quanto potrebbe diventare forte il nostro continente se questo insensato rito venisse abolito?”
La strada da percorrere è ancora lunga: i provvedimenti legislativi possono essere attuati solo se accompagnati da una campagna di sensibilizzazione. La questione educativa è la vera emergenza, nelle nostre scuole così come nei Paesi in cui queste pratiche sono ancora messe in atto. È necessaria un’educazione all’affettività che renda consapevoli i ragazzi e le ragazze del valore di ogni corpo, della profondità dei sentimenti e delle emozioni. Questo è il presupposto fondamentale affinché si possa creare un dialogo con quelle culture in cui le tradizioni si pongono in contrasto con i diritti ormai riconosciuti a livello universale.
La bella storia del riscatto di Waris sia modello per tutte noi.
Marta Schiavone