La Onlus Sport Senza Frontiere viene fondata a Roma nel 2009. Alessandro, il presidente, era proprietario di una società sportiva di Pentatlon nella capitale e aveva deciso di dare la possibilità di fare sport ai bambini e ragazzi che non si potevano permettere di pagare la quota di iscrizione. Insieme ad alcuni amici hanno quindi fondato Sport Senza Frontiere che – a undici anni dalla fondazione – oggi è presente nelle città di Roma, Milano, Torino, Napoli, Bergamo e Trento e che ha lo scopo di garantire la pratica sportiva anche ai giovani di famiglie in disagio socio-economico.
Ho avuto la fortuna di incontrare Valentina, una mia compagna di università che da qualche anno lavora per la Onlus, e, tra una chiacchiera e l’altra, l’ho intervistata. Lavora presso la sede di Milano con una equipe di circa sei persone e mi ha raccontato che, anche se in pochi, riescono a prendersi cura di cento e più bambini.
Come funziona?
L’associazione si prende in carico una famiglia, si chiede al bambino o al ragazzo quale sport desidera praticare e gli si fa fare la visita medica. Successivamente si cerca un centro o una società sportiva disposti a collaborare per inserire il minore in una squadra già formata; ci sono società grandi che possono regalare la quota di iscrizione anche a più di un bambino, mentre ad altre realtà più piccole la quota viene pagata dalla Onlus, grazie ai finanziamenti e gli sponsor. Le famiglie contattano la Onlus attraverso i centri sociali o le comunità etniche, altre volte sono le maestre del bambino a chiamare Sport Senza Frontiere o i centri sportivi, altre volte tutto avviene tramite un semplice passaparola. A ogni tutor vengono affidati circa venti bambini: a seconda delle esigenze di ognuno, di volta in volta li si accompagna all’allenamento, si parla con la famiglia, e si fornisce supporto sotto diversi punti di vista. Durante il lockdown Sport Senza Frontiere ha mantenuto attive le relazioni con le famiglie con diverse chiamate durante la settimana per informarsi sulle condizioni dei bambini. Valentina definisce questa realtà una grande ‘rete solidale’.
L’idea di base?
«L’idea è inclusione sociale attraverso lo sport» – Valentina mi racconta che molti bambini dopo la scuola rimangono a casa a non fare niente, poiché i genitori lavorano – «Per noi, ‘persone fortunate’, a settembre c’era la possibilità di scegliere lo sport che ci piaceva di più e la mamma ci avrebbe iscritto… non tutti se lo possono permettere. Quindi è importante dare la possibilità di fare questa scelta: sia per favorire l’inclusione sociale, ma anche per permettere ai bambini di conoscere i valori che lo sport è in grado di darti: determinazione, problem solving, gestione dei piccoli conflitti/capricci». Infatti, grazie alla collaborazione con l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Tor Vergata a Roma, si cerca di monitorare l’impatto sociale del progetto lo sviluppo, non solo fisico, ma anche psicologico del bambino.
«Io credo profondamente nei valori della sport e in quello che lo sport ti può dare, perché ho sempre avuto la fortuna di praticarlo. E credo anche in tutto quello che ‘il fare sport’ implica, non solo per il bambino, ma anche per le famiglie, a cui, ad esempio, viene data la possibilità di incontrare altre famiglie e creare importanti legami sociali».
Maddalena Fabbi
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