Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni giovani professionisti sanitari che stanno lavorando in prima linea contro il nuovo coronavirus. Negli ultimi mesi hanno dovuto fare molti sacrifici, come tutti noi. A differenza nostra, però, non sono potuti rimanere al sicuro nelle proprie case. Le storie di queste persone suscitano una profonda gratitudine e meritano di essere raccontate.
Carmine ha 29 anni, vive in provincia di Milano ed è uno specializzando in chirurgia generale. Negli ultimi mesi sta lavorando nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il centro principale di gestione dei pazienti affetti da Coronavirus della Bergamasca e di tutta la Lombardia. Ci racconta: «Nessuno guarda più l’orologio e anche medici che normalmente non si occupano della gestione di questo tipo di malattie vengono in reparto per aiutare a gestire i pazienti». Finito il turno di lavoro, Carmine torna a casa e cena da solo. In casa evita il contatto coi familiari e usa un bagno privato. A volte il timore è grande, anzi è quasi una certezza: quella di contrarre la malattia. Eppure in lui ha sempre prevalso la voglia di aiutare: «Mi sono reso conto di quanto io ami questo lavoro e sono pronto ad accettarne il rischio».
Arria ha 26 anni, vive in Michigan (USA) e lavora come terapista respiratoria all’Hurley Medical Center di Flint. A fine aprile aveva in programma un viaggio in Canada e a maggio un altro in Messico. Invece nell’ultimo mese ha cominciato a lavorare nel reparto Covid e ha concentrato tutte le energie nella sua professione. Anche Arria si è auto-isolata dalla famiglia e dagli amici per proteggerli. A volte è dura ma non si arrende: «È stato un onore riuscire ad aiutare molte persone e portarle sulla via della guarigione. Questo percorso è molto duro per noi professionisti sanitari ma alla fine ci renderà più forti».
Davide ha 28 anni, vive a Brescia e sta studiando per il test di specializzazione medica. Negli ultimi mesi ha cominciato a lavorare come sostituto di un medico di base che si era ammalato di Covid, come guardia medica e nelle USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale. Le USCA sono unità che vanno a casa di pazienti positivi o sospetti positivi per impostare le loro terapie. Anche per Davide l’auto-isolamento è pesante e ha visto molta sofferenza soprattutto negli occhi dei parenti che non hanno potuto svolgere i funerali dei propri cari. Eppure la solidarietà non si ferma: «Io e i miei colleghi ci confrontiamo su gruppi Facebook e Whatsapp su terapie e gestione paziente e siamo sempre disponibili a darci una pacca virtuale sulla spalla a vicenda. Non ce l’avrei fatta senza questa coesione che si è creata».
Chiara ha 26 anni e vive a Lille in Francia, dove si sta specializzando in medicina del lavoro. L’azienda in cui lavorava ha chiuso e il Centre Hospitalier Universitaire l’ha chiamata a fare test sierologici a persone che hanno manifestato sintomi e potrebbero essere positive. Chiara a volte ha paura: poco spazio tra possibili contagiati e personale sanitario e soltanto mascherine chirurgiche per proteggersi. L’atmosfera in ospedale, però, è inaspettatamente risollevata dalla grande fiducia dei pazienti: «I pazienti e le loro famiglie ci chiamano eroi e cercano addirittura di farci dei regali. Sono grati a tutto il corpo medico come non lo erano mai stati prima ed è commovente».
Anna Do Amaral