Il sugo nella pentola annunciava, col suo ritmico scoppiettare di schizzi qua e là, che era giunto alla cottura perfetta. Le verdure in padella andavano lente e attente e cantavano emettendo uno sfrigolio che faceva da sottofondo al rimbombo fragoroso delle bolle d’acqua nella pentola accanto. Anche il pane nel forno era pronto, poiché si era gonfiato fino a mostrare timidamente un pezzetto del suo interno dall’incisione a forma di X che gli era stata imposta a pasta cruda. Anche il suo colore, simile a una duna al tramonto, confermava la cottura. Il basilico sul lavandino attendeva, sgocciolando, di essere finalmente lasciato nuotare nel rosso mare di pomodoro; e i profumi, i profumi uscivano da ogni singolo alimento, si levavano in aria, circondavano pentole e padelle, si infilavano sotto le curve delle posate adagiate sul piano cottura e salivano, alleandosi e intrecciandosi, fino a inondare la cucina dei sapori della cena quasi pronta. Tutto era pronto, persino il vino, lasciato decantare, aveva raggiunto la temperatura perfetta per accompagnare il pasto.
Ma la poesia della cucina non è sempre ben visibile e nonostante l’armoniosa sincronia dei tempi di cottura, nonostante quei sapori e quei colori, all’entrare in cucina anche il gatto si era spaventato vedendo lo scenario apocalittico: la farina regnava indiscussa su tutte le superfici; gambi e fogliame di verdura giacevano negli angoli più remoti di tutta la parte destra della cucina, mentre nella parte sinistra si trovavano sparsi tutti gli utensili che, uno a uno, erano stati testati per valutarne la loro funzionalità, creando una vera e propria esposizione di mestoli, coltelli, cucchiai di legno, forchette, palette, e quant’altro, tutti sporchi di sugo, lo stesso sugo che aveva conquistato il suo impero verticale segnando il territorio con macchie lungo tutta la parete a piastrelle bianche.
La cena, a ogni modo, a giudicare dall’insieme complessivo della cucina, era pronta. Mancava soltanto qualcuno che la gustasse.
Mishel Mantilla