Morena Pedriali Errani – su Instagram @nenaromani – vive a Ferrara con la sua famiglia. Da 18 anni scrive e fa attivismo per le minoranze rom e sinti. Ha scritto il suo esordio Prima che chiudiate gli occhi per Giulio Perrone Editore. Abbiamo parlato di militanza e cultura romanì.

Ti occupi di attivismo: in che modo lo porti avanti e quali limiti trovi nel farlo oggi in Italia?
Porto avanti l’attivismo attraverso la scrittura, cercando di fare arrivare a più persone possibili i miei racconti sul tema rom attraverso il mio blog Ruzengo Paj, letteralmente “acqua di rose”. Parlo di comunità romanì, soprattutto quelle che vivono nei campi, in condizioni di vita complesse. Scrivere serve, ma non è abbastanza. Allora agisco su più fronti: sensibilizzo la parte di società non romanì, organizzando mostre di arte romanì, presentando libri e intervistando persone. Tutto questo è necessario. Da maggio 2017, infatti, il governo ha ripreso il “Piano Rom” a livello nazionale: Virginia Raggi, all’epoca dei fatti sindaca della capitale, ha affermato che “a Roma saranno superati i campi Rom”, sancendo così “la fine dell’era dell’assistenzialismo”. La misura è stata approvata con una delibera di Giunta e con 3,8 milioni di fondi europei investiti. Il piano prevede l’abolizione di tutti i campi Rom e Sinti attraverso un dialogo con le comunità. Questo accordo, però, non esiste: le proprietà vengono direttamente distrutte e le persone sfrattate. Essere sgomberati da un luogo in cui hai vissuto per tutta la vita – per ricominciare altrove – è un percorso psicologicamente complesso.

Le concezioni di spazio e tempo all’interno della cultura Romanì si distinguono dalla nostra: come?
La riduzione della concezione di spazio a quella di “campo rom” è una delle conseguenze dell’esclusione dalla società della nostra comunità. Infatti nella dimensione urbanistica, i campi sono volutamente costruiti e lasciati ai margini: questa marginalizzazione urbana porta con sé alti livelli di razzismo ambientale, come succede nella discarica di Pata Rat a Cluj Napoca, in Romania. Sul concetto di spazio hanno influito una serie di fattori storici legati alla persecuzione: non siamo nomadi per cultura, ma perché costretti ad esserlo.
Invece, per quanto riguarda la concezione del tempo, una volta tutto si concentrava su una visione ciclica, in cui la vita si adattava alle stagioni e alla presenza della luce del sole: tutto ciò avveniva controcorrente rispetto alla società italiana. Nella scansione della giornata non esiste una rigidità secondo cui a un determinato orario bisogna svolgere una determinata attività, anche se la nostra visione porta con sé una certa ripetitività. Ora, con i processi di globalizzazione, abbiamo un’idea di tempo simile a quella prevalente, anche se chiaramente la vita in un campo ai margini della società – una realtà diversa da quella del resto della popolazione – è peculiare e slegata dal resto della città, per costrizione altrui. È emblematico infatti che non esiste un termine per dire solamente “ieri”: è lo stesso che si usa per dire “domani”. Questo perché il passato non si può cambiare e quindi non esiste neanche la necessità di nominarlo, anzi è un vero e proprio tabù: si guarda direttamente al futuro. Sicuramente su questo incideva anche un trascorso carico di eventi negativi per la comunità romanì e così parlare del passato diventava complicato. E ancora oggi lo è.
Federica Mangano