«Dove ci troviamo, Ahmad?». Urlo ma nessuno mi sente. Strillo ma nessuno sembra essersi accorto che il nostro piano non è andato a buon fine. Il mio giubbotto non è esploso: deve esserci stato un contrattempo. Un gioco che mi vuole ancora qui.
Sembrano essersi tutti addormentati. Il nostro aereo, quello che io e miei abbiamo deciso di dirottare, vola ancora: vedo le nuvole che attraversiamo. Vedo sotto di me il World Trade Center ancora intatto. Mi avevano detto che bastava premere il pulsante rosso. Un giochetto semplice, no? Perdere la vita per sacrificarsi per ciò in cui credo. Un solo tasto e il gioco è fatto. Ma qualcosa dev’essere andato storto. Vedo un bebè che ha smesso di frignare, sua madre con le mani pronte a slacciare la camicia per poterlo allattare. «Cosi magari se ne sta un po’ zitto» avrebbe detto al marito. Sì – avrebbe – perché qui nessuno sembra esistere più al presente.
Il mondo è morto. Non solo il mio Dio. Non solo io. Uso il condizionale perché quella stupida donna non si muove. Le tocco i capelli biondi, lisci e profumati: immobile. Mi preparo alla reazione del marito. Neanche lui sembra accorgersi della mia presenza. Mi sembra di percorrere il Museo delle Cere di Londra, non ci sono mai andato: se mai dovessi – al condizionale – andarci, me lo immaginerei così. Sto farneticando. Io, militante in prima linea per difendere il mio paese dai barbari occidentali, non me lo posso sognare nemmeno di entrare lì dentro!
«Mi sentite?» urlo. Sono famelicamente consapevole di non essere sentito. Tutto tace: il silenzio si impadrona del mio aereo. Ormai è mio. Sono padrone e artefice del mio destino.
Artificiere delle vostre insulse biografie.
Federica Mangano