Normann era un albero come tanti. Aveva delle belle fronde verdi rigogliose a primavera e i rami secchi d’inverno. Della specie non saprei dire, questa cosa di doversi ricondurre a una tassonomia vegetale non gli andava giù, e poi comunque non si usava nel mondo dei suoi simili.
Quello che probabilmente contraddistingueva Normann rispetto agli alberi non da lui dissimili era il fatto che vivesse in una grande città. In un punto ben preciso di una sovraffollata metropoli urbana: all’incrocio di una strada, tra una banca e un tabaccaio. Vegliando dall’alto dei suoi rami robusti la rotonda sottostante, dove automobili e persone si susseguivano tutti i giorni in un affaccendato avvicendarsi di piedi, ruote, voci e puzzo grigio.

Normann stava lì da anni ormai, era uno di quegli alberi che le persone di zona consideravano un punto fermo del quartiere. Aveva visto di tutto: incidenti stradali, mamme che accompagnavano per mano i figli a scuola, giovani che trottavano attraversando in fretta le strisce pedonali, vecchi giocare a briscola ai tavolini del tabaccaio e dipendenti incravattati accendersi una sigaretta all’angolo della strada.
Nonostante quella fosse la sua vita da ormai parecchio tempo, ultimamente Normann era insofferente, seccato, nostalgico e giù di morale. L’inesorabile progresso di quella città lanciata al futuro, aveva fatto sì che le automobili fossero aumentate, e con loro la frenesia di una piazza i cui lampioni non si spegnevano nemmeno di notte per lasciarlo riposare in santa pace.
Le macchine gli sbuffavano intorno tutto il santo giorno, con le loro marmitte fastidiose e la puzza di schifo appresso. Normann aveva pensato più volte a trasferirsi, ma come si fa? Non è che gli alberi possano fare le valigie e partire. Quindi, era stato costretto a rimanere nell’infelicità di quel luogo tanto caotico quanto inquinato.
Anche l’aspetto relazionale lo rattristava parecchio. Le persone avevano perso l’abitudine di soffermarsi a guardarne i rami in fiore e gli uccellini che di tanto in quando si posavano sulle sue fronde. I giovani, i vecchi, i bambini e le ragazze sole, nessuno passando lo degnava più di uno sguardo, tutti con la faccia impastata nel proprio cellulare.

Avrebbe allora voluto alzare la voce, gridare forte a quel giovane che camminava a passo svelto sulle strisce pedonali con lo zaino in spalla, a quella donna che pizzicava con i suoi tacchi a spillo il cemento del marciapiede in un tic-tic cadenzato e regolare, in quella vecchia che col suo fidato girello avanzava lenta per raggiungere il fruttivendolo all’angolo. Avrebbe voluto scuotersi e dire a tutti loro che stavano sprecando il bello, che stavano uccidendo la natura che li contornava e che stavano inasprendosi nel proprio solipsismo non relazionale. Che, così facendo, stavano perdendosi ciò per cui valeva la pena vivere.
Fu mentre rimuginava su queste e altre esasperazioni delle città di oggi, che Normann percepì un tepore lieve sulla sua corteccia ruvida. Il peso di qualcosa che gli si poggiava contro. Era un bambino, i riccioli castani arruffati sulla fronte e un gelato in mano. Il piccolo si era seduto a gambe incrociate sotto le fronde di Normann, per godersi l’ombra di quelle foglie verdi aspettando che il suo papà pagasse in gelateria e lo raggiungesse.
Il bambino aveva preso ad accarezzare gentilmente la corteccia di Normann mentre leccava con entusiasmo il suo cono alla fragola e frutti rossi. Quasi cercasse di smussarne la ruvidezza con le sue manine piccole. E appena il padre lo raggiunse, con gli occhi pieni di meraviglia lo guardò e disse: “Ma tu ci hai mai pensato a quante può averne viste quest’albero papà?”.
Gaia Bugamelli