Si stima che oggi in Italia vivano tra le 150.000 e le 170.000 persone Rom, Sinti e Caminanti (RSC), di cui la metà con regolare cittadinanza italiana. Le difficoltà di inserimento lavorativo e le ghettizzanti politiche abitative sono tra le dimensioni di esclusione forse più evidenti per questa minoranza etnico-linguistica, rispetto alla quale sono più gli stereotipi in circolazione che le nozioni rispondenti al vero.
Da più di un decennio ormai, è stata varata in Italia una Strategia nazionale d’inclusione di rom, sinti e caminanti, corredata dalla formulazione di interventi concreti che promuovano «la parità di trattamento e l’inclusione economica e sociale delle comunità RSC nella società». Tra questi, il Progetto per l’inclusione e l’integrazione di bambini Rom, Sinti e Caminanti – promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali in collaborazione con il Ministero dell’istruzione, il Ministero della salute e l’Istituto degli Innocenti – coinvolge 13 città metropolitane nel garantire l’accesso ai servizi scolastici territoriali per la comunità RSC in constrasto all’abbandono e alla dispersione scolastica.

Gli interventi coinvolgono le scuole, i contesti abitativi e la rete locale, promuovendo la collaborazione tra la pubblica amministrazione e il Terzo Settore, come sottolinea Giulia Comoletti, coordinatrice delle attività su Milano. Capofila del progetto è la Fondazione Somaschi, che collabora con Casa Della Carità, Ceas, e la cooperativa sociale Zero5.
«I beneficiari primari sono i bambini e le bambine Rom, [quelli] secondari tutto il gruppo della classe, insegnanti, collaboratori scolastici, e poi in teoria anche la comunità allargata. […] L’idea è di riuscire a creare una rete dentro il territorio» mi racconta Matteo Leani, che lavora al progetto come educatore con Casa della Carità seguendo i nuclei familiari di Via Negrotto: «Io sono di connessione fra le famiglie di Negrotto e la scuola primaria di riferimento, la Console Marcello».
Ma come si fanno i conti con i pregiudizi strutturali, con il nostro retaggio culturale che ancora oggi relega queste persone all’immaginario di nomadi e giostrari? «C’è anche questo stereotipo che associa sempre i Rom a una cultura nomade, invece sono persone che hanno delle case vere e proprie, distanti ormai da quella concezione del campo rom inteso come abusivo».

Discutendo di stereotipizzazioni, interrogo Matteo rispetto alla lingua parlata da queste persone con cui si relaziona ogni giorno: «Ma parlano tutti italiano! Magari dialetto quelli che vengono da giù per esempio i Caminanti che sono di Noto, allora parlano un po’ di dialetto e mischiano un po’. Poi magari parlano anche la lingua romanés, non lo so, io non li ho mai sentiti parlare nessun’altra lingua che non fosse italiano».
Gli chiedo del rapporto delle famiglie che segue con la scuola come istituzione: «Dipende molto dalla famiglia. Molte, forse anche per abitudine, essendo state sempre ghettizzate non ne riconoscono l’importanza. […] Qui però uno dei problemi è di capire perché non lo ritengono importante e necessario. Una questione è come la comunità in generale vede queste persone… sui social, nelle trasmissioni televisive, [è evidente] come il rom viene discriminato.

Quando gli domando come si sia conquistato la fiducia di cui gode oggi all’interno della comunità che segue, Matteo commenta: «Sono entrato con i piedi di paglia, ascoltando i bisogni e facendo un passettino in più ogni volta. [Bisogna ricordarsi che] sono persone, sono italiane, ma hanno dei bisogni dettati dalla decennale situazione in cui vivono, che poi si tratta di pregiudizi risalenti al periodo fascista. È un problema altamente strutturale».
Gaia Bugamelli
(Immagini: courtesy of Matteo Leani)