Eduard cammina lento sul pontile in ferro che si allunga sul mare come un intruso, un corpo estraneo ai tanti pesciolini che popolano quelle acque e che scansano confusi i pali cerulei di quella struttura conficcata nella sabbia molle sotto di loro. Eduard avanza passo passo, sono 90 l’anno prossimo, e gli sembra di sentire i rimproveri di sua moglie che gli intima di rallentare, «Che se poi cadi sono guai» gli diceva sempre. Si calca il cappello in testa, tira su il bavero del cappotto fin sopra il mento e tuffa le mani in tasca nel tentativo di ripararsi da quel vento gelido di metà febbraio. Percepisce quella brezza che gli gela le ossa, nonostante non la senta soffiare. Domina un silenzio imperante.
Non una calma piatta, le persone ci sono: le coppie con la loro cioccolata calda salda tra le dita – rigorosamente da asporto nei bicchieri di carta con il logo della pasticceria dall’altro lato della strada -, i bambini in bicicletta, bardati dai genitori manco andassero a scalare l’Himalaya – che se tossisci in pubblico in tempo di Covid, sia mai -, i cani che scodinzolano, la distanza di un guinzaglio a separare quelle palle di pelo da chi se ne prende cura, e qualcuno che trotterella a ritmo per tenersi in forma, intubato nella tuta da ginnastica, cappuccio in testa.
Di gente, sul lungomare il sabato mattina, non ne manca insomma. Eppure c’è silenzio, un silenzio che sarebbe assoluto se non fosse per le voci che popolano i discorsi di chi gli passa accanto. Un silenzio assordante nella sua manifesta anormalità, da quando, da due settimane a questa parte, le cose hanno smesso di fare rumore. Ebbene sì, creduli e increduli: soltanto voci, nessun cigolio, nessuno scoppio, ticchettio o clacson a scandire il ritmo della città. Nessun fruscio, suono o insicuro scricchiolio ad appuntare lo scorrere del tempo. Le mani applaudono senza fragore, le macchine sfrecciano senza emettere un suono, le patatine friggono nell’olio senza sfrigolare, il fuoco arde nel camino senza scoppiettii e le campane suonano senza rintocchi.
Eduard guarda il mare e sospira. Mai si sarebbe immaginato di assistere nel corso della sua vita a due eventi tanto straordinari. Una pandemia che gli ha succhiato via due anni di vita, costringendolo a barricarsi in casa senza nemmeno poter godere della compagnia dei suoi nipoti, delle partite a canasta e dei cicchetti al bar con gli amici, delle conferenze in università o delle mostre temporanee allestite nella galleria d’arte dietro il municipio. E poi questa: la Terra che di punto in bianco decide di ingoiarsi tutti i suoni, fuorché le voci degli abitanti che la popolano. Maledetto Pianeta, non si poteva fare di estinguere i discorsi lasciando invece vivere l’espressione delle cose che ci circondano? Avrebbe fatto volentieri a meno degli sproloqui del suo vicino di casa che, quando lo incontra sul pianerottolo, passa dieci minuti buoni a raccontargli della sua vita – della quale a Eduard peraltro non interessa un fico secco – prima di levarsi di torno salutandolo animosamente. Non avrebbe pianto la nostalgia di quei momenti, al contrario, se ne sarebbe quasi rallegrato. Lo stesso non può dirsi dell’ammutolirsi improvviso degli oggetti inanimati che scandiscono il suo vivere quotidiano: da due settimane sfogliava giornali le cui pagine non rumoreggiavano compiaciute ai suoi passaggi da un articolo al successivo; apriva compulsivamente il coperchio della moka sul fornello acceso a intervalli regolari di 30 secondi per assicurarsi di non bruciare il caffè, nuovo al non sentir sobbollire l’acqua sotto il tappo; picchiettava sul pianoforte riproducendo insoddisfatto nella sua mente i suoni che quello strumento avrebbe altrimenti emesso.
Ora se ne sta lì. Fermo impalato a osservare l’infrangersi silenzioso delle onde sugli scogli. Vorrebbe gridare all’indifferenza della gente che sembra aver normalizzato la cosa tanto quanto l’andare in giro con le mascherine spalmate in faccia. Costantemente. Vorrebbe che reagissero, ma non è colpa loro. Sì, però, come ci riescono? A fare i noncuranti intende. Nessuno sembra meravigliarsi più di niente da quando il Covid-19 è piombato nel 2020 senza chiedere il permesso. Precipitando l’umanità intera nel più incredulo degli sconforti prima, nella più totale delle assuefazioni dopo qualche tempo.
Normalizzare l’assurdo, ingoiarne la presupposta inevitabilità, è qualcosa che lui non ha mai tollerato. Gli piace arrovellarsi nell’impulso incontenibile di farsi domande, di porne ad altri, di collezionare risposte, discutere animatamente e costruire supposizioni con le sue cellule grigie. Gli piace avere da ridire, meravigliarsi ad alta voce, non reprimere lo stupore ma anzi esplicitarlo a braccia aperte. Fissa l’incollarsi del mare sulla parete dell’orizzonte, e sente incontenibile la voglia di tuffarcisi rumorosamente dentro.
Guarda una ragazza che corre sul bagnasciuga, qualche decina di metri più in là, in direzione opposta alla sua, venendogli incontro. La osserva fare jogging assecondando il proprio respiro cadenzato. Si allena con le cuffie nelle orecchie, la musica sparata a mille, se non per isolare i rumori fuori quantomeno per dimenticarsi che non esistono più. I suoni generati dagli apparecchi tecnologici rimangono, quelli non sono spariti, la Terra ce ne ha fatta gentile concessione. Il cellulare squilla e le ultime canzoni di Sanremo rimbombano nelle cuffie. Però le onde terminano il loro viaggio rovesciandosi sulla riva nel più assoluto silenzio. Eduard vorrebbe urlare, pestare i piedi e strapparsi i pochi capelli che gli restano. Non baratterebbe mai i Måneskin con il rumore delle foglie che frusciano nel bosco a primavera, sollecitate dalla brezza di prima mattina. Vorrebbe sedersi sulla sabbia, le gambe incrociate, socchiudere gli occhi e sentire la Terra che respira nel restituire alla spiaggia le onde del mare lì di fronte.
E voi? Ve le scollereste le cuffie dalle orecchie se, da domani, i suoni non facessero più rumore?
Gaia Bugamelli
© Credit immagini: Courtesy Mishel Mantilla & Elena Galleani d’Agliano