La storia di oggi…
E’ passato circa un mese da quando i mass media di tutto il mondo hanno associato le parole ‘manifestazione’, ‘guerra’ e ‘rivoluzione’ con quello che, fino a due mesi fa era considerato il paese più sviluppato, sicuro ed economicamente avanzato del Sud America, il Cile.
Da cilena d’adozione mi ritrovo a chiedermi come si è passati da ‘il Cile è un’oasi’ a ‘siamo in guerra’ (cit. Presidente Pinera)?
Per le strade, in questi giorni, scorgo un popolo che, unito, chiede giustizia, rispetto, dignità e speranza, soprattutto per i suoi figli.
…si intreccia con quella di ieri…
Per chiunque mi circonda il nemico è uno solo e ha le sembianze del capitalismo neoliberale.
Questo punto di partenza, chiaro, non unisce solo l’ultima generazione di studenti nata nella nuova democrazia del 1990, ma è condiviso anche da lavoratori, disoccupati e pensionati, abitanti indistintamente nel centro città o sulle colline periferiche (i Cerros), che hanno vissuto la dittatura di Pinochet.
Fin dal 1980, infatti, il Cile è stato il laboratorio per eccellenza del sistema neoliberale, caratterizzato dal processo di privatizzazione e dall’apertura dell’economia ai capitali stranieri che ha portato al così detto Miracolo cileno.
Se parlo di questo con i miei amici cileni scopro, però, che il prezzo da pagare è stato elevato:
- privatizzazione dell’acqua;
- sistema educativo tra i più costosi del Sud America oltre che qualitativamente scadente;
- sistema di salute pubblico non funzionante e caro;
- sistema pensionistico che è interamente privatizzato e non consente di maturare sufficienti contributi. Pertanto, raggiunta l’età pensionabile si continua a lavorare per mantenersi e per pagare i debiti contratti, in particolare, con scuole, università e ospedali;
- salario minimo pari a 425 dollari mensili quando quello dei politici è maggiore di circa 33 volte.
Le cose non sono cambiate neppure dopo la caduta di Pinochet dal momento che la democrazia si fonda su una Costituzione scritta durante la dittatura.
Per questo motivo, senza soluzione di continuità, il sistema nato durante la dittatura militare si è radicato durante la democrazia neoliberale del 1990.
Ascoltando i miei amici, mi accorgo quindi che l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana, inizialmente indicata come la causa delle proteste, è stata solo una goccia in un mare di motivi che si accumulano da più di 40 anni.
…e genera disuguaglianza…
Se infatti nel complesso il Cile rimane un paese ricco con un’economia tra le migliori del Sud America, la società cilena rimane fortemente diseguale in termini di reddito, ricchezza e livelli di istruzione, visto che l’1% della popolazione detiene il 33% delle risorse.
Inoltre, volendo allargare lo sguardo, l’elemento che preoccupa di più è che in Cile la disuguaglianza si ‘eredita’. Insomma, invece di ridursi, la condizione di disparità si trasmette da una generazione all’altra, mentre le chance di risalire lungo la scala sociale per i meno fortunati si riducono sempre di più.
…ma può cambiare: la fotografia di un popolo che non si arrende alla continua ricerca di una possibile alternativa.
Ogni giorno vengono organizzate diverse marce e, in tutti gli angoli delle città, persone di diverse per età ed estrazione sociale camminano per cause diverse ma comunque connesse.
Si tratta per lo più di marce pacifiche, con bandiere, bandane e strumenti colorati, con canti e balli, con artisti che fanno performance in piazza. Sono marce, non attacchi violenti alla polizia e allo stato.
Ho riconosciuto il popolo cileno come allegro, unito e temprato dalle avversità del passato. Ricco di risorse, storia e costumi: chiede indietro la propria dignità.
La scorsa domenica sono stata ad una manifestazione sulla spiaggia a Renaca, una cittadina sul mare popolata anche da turisti stranieri.
Mi sono ritrovata immersa in un vero e proprio festival, allegro e scanzonato, pieno di famiglie con bambini. Gruppi di ragazzi in costume fanno il bagno e altri in cerchio suonano i tamburi. Siamo tantissimi e non mancano i venditori ambulanti carichi di panini, bibite e frutta. Persone così diverse ma tutte unite da un solo filo reso evidente dai tanti cartelli con gli slogan e gli hashtag della manifestazione, dalle bandiere Mapuche – popolo del Cile che chiede autonomia da molti anni e che viene sempre represso e discriminato – e dal Matapaco, il cane di strada con il bavaglio rivoluzionario al collo, simbolo della rivoluzione.
Nei miei occhi e nella mia testa restano immagini molto diverse da quelle così costruite mostrate dai mass media, sono colorate e cariche di speranza, sono quelle di un popolo unito che è alla disperata ricerca di una nazione, della sua nazione, più equa e solidale.
Maddalena Fabbi
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