“Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perchè andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza, conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada.“
[Franco Cassano, Il pensiero meridiano, 1996]
Panificare è l’elogio della lentezza. Un’arte povera, fatta di acqua e farina, che enuclea in sé tutto l’amore per una calma della quale sembriamo ormai esserci dimenticati, assuefatti come siamo dal nostro correre quotidiano, dal nostro rincorrere ossessivo e routinario.
Ciò che mi ha sempre affascinata della panificazione è anzitutto la riscoperta della pazienza, presupposto necessario per riscoprire tutta la bellezza di un saper fare che connota fortemente la natura del nostro Paese. Impastare il pane.
Disaccoppiando la cucina dell’esclusività, da rituali difficili e ingredienti rari e spesso introvabili, l’arte del pane si riconosce anzitutto per la semplicità della materia prima: acqua e farina. Ed è forse per questa inconciliabilità con la “cucina d’élite” che si è trovata un modo tutto suo di stare, di essere chiamata, un verbo che le riconosca questo distacco e ne legittimi l’unicità: non cucinare, bensì panificare.

Nel pane ho riscoperto il significato del prendersi cura. Dalla primissima ossigenazione della farina che antecede, alla mescola con l’acqua all’impastare vigoroso a suon di ‘slap and fold’ che precede il riposo prima e la lievitazione poi. È un lavoro di pazienza, che richiede un’attenzione specifica alla materia in sé (la forza della farina, la sua qualità e derivazione) quanto al contesto (l’ambiente di lievitazione, il forno, la temperatura). È un lavoro che ci sposta dal nostro essere protagonisti, mettendo al centro quell’Altro qui identificato come la pagnotta alla quale stiamo dando forma.
La panificazione è una tecnica, un viaggio, un’avventura, che mette da parte il nostro irrinunciabile antropocentrismo. In certa misura si prende cura di se stessa in autonomia: nel processo di fermentazione del lievito, così come in quello di autolisi, che altro non è che l’autoevoluzione del glutine quando, avendo mescolato acqua e farina, ci allontaniamo per un po’ lasciamo che l’impasto prenda forma da sé, senza la necessità di impastare ossessivamente per renderlo omogeneo. È quindi un’arte che si fa da sé, quantomeno nelle prime fasi, rispetto alla quale il nostro protagonismo attivo viene messo da parte, dovutamente sacrificato nella (ri)scoperta di una lentezza, di una pazienza, che possiamo finalmente assaporare a pieni polmoni.

Il pane non si può fare dall’ora al tra poco. Richiede attenzione, dedizione, ci obbliga ad aspettare, a mettere in discussione il paradigma eurocentrico di performatività direttamente proporzionale all’efficienza, alla velocità. Per riscoprire il saper stare nell’attesa, nella meraviglia di qualcosa che non sappiamo che forma prenderà. La panificazione sollecita anche la nostra creatività, nella scelta dei condimenti, nell’accoppiamento degli ingredienti e nelle forme date. Pizzica il nostro piacere, nell’affondare le dita nella materia viva, nell’assaggiare con golosità, nel condividere quanto panificato con altri.
Panificare è un’arte nobile, che ci allontana da noi stessi e ci aiuta a riscoprire il senso di esistere come ospiti di una Terra che ci accoglie, invece che come protagonisti di un mondo che ci appartiene.
Gaia Bugamelli
Credit photo: courtesy of Gaia Bugamelli