Tutte le strade portano a casa

Tornare in un luogo lasciato non è mai cosa facile. In primis, per i motivi, fosse anche uno, che ci hanno condottə ad andarcene. I quali, spesso e volentieri, una volta ripresa la strada del ritorno, si ripresentano sul cammino, più energici di prima, più furbi di prima, pronti a fermarci e a domandarci «Pensavi veramente ci fossimo dileguati? Credevi bastasse cambiare paese, per estirparci?». Dunque, ritornare è fare i conti con ciò che, ieri, ci ha guastatə.

Il significato latino del verbo tornare, “lavorare al tornio, far girare sul tornio”, rimanda al senso di “muovere o muoversi in circolo”, che suggerisce un’azione circolare, che da noi parte e a noi arriva. Ritornare, infatti, richiede di passare di nuovo da noi stessə per risistemare quelle toppe che abbiamo applicato con fretta e furia e che necessitano una rinnovata attenzione. In qualche modo, ritornare significa provare a curarsi.

Ho creduto, per diversi anni, che l’unico rifugio per le mie sofferenze fosse l’individualità. Abitare un arcipelago, restando sempre un’isola, isolata, senza alcun ponte sullo stretto. Privilegiare la quantità dei legami a discapito di frequenza e qualità. Applicare ciò che Frantz Fanon scrive in Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale: Non ci sono contatti. Ci sono solo urti. Sentirmi estranea ovunque, mai di casa, mai a casa. E poi, ecco, i motivi sono venuti a prendermi anche lì, a 200km da dove credevo di averli lasciati. Allora, mi sono detta, forse è il caso che torni, perché, da sola, temo di non averci capito niente.

È stato quando ho iniziato a prendermi cura degli altri, che mi sono presa cura di me stessa.

Quando ho accettato la carica emotiva che accompagna ogni appartenenza, ogni comunanza – in quattro parole, il rischio della fine – che sono tornata a godermi la bellezza del vivere nei luoghi, con le persone, con gli esseri viventi lasciati in passato, e ritenuti, spesso a ragione, fonte del mio dolore. Quando ho cominciato a porre attenzione, a dare attenzione, ammettendo, in quattro parole, il rischio del rifiuto, che ho intrapreso quel percorso di conoscenza, di perdono e compassione, verso di me, ma a partire dagli/lle altri/e. La cosa più difficile è conoscere sé stessi, diceva Talete, mentre aveva lo sguardo rivolto verso il cielo.

Pensa che si muore, scrive Franco Arminio in Cedi la strada agli alberi, e proprio perché si muore, è necessario concedersi. Concedetevi una vacanza/intorno a un filo d’erba/ concedetevi al silenzio e alla luce/ alla muta lussuria di una rosa.

Tendersi, dunque, alle strade che faccio per tornare a casa, sempre le stesse, ma ogni volta inedite; ai sentieri tra gli alberi, che in città difettano, ma in provincia abbondano; all’abitare un luogo in cui non succedono gli avvenimenti importanti, la Storia, in cui non ci sono grandi concerti, mostre, saloni del libro e la settimana del design o della moda, ma ci sono Trudy-la gattina, le battute penose di mio fratello undicenne, le domande di mia madre che alle 6 di mattina vuole sapere i miei programmi dei prossimi trent’anni. Un luogo dove le persone si accorgono quando non ci sei, dove senti di far parte di, di non essere più solamente un individuo, ma con-dividuo, partecipante emotivo di ciò che ti circonda, costituita dalle relazioni di cui partecipi.

Tutto ciò, sembra – scusate il termine – un’immensa supercazzola, eppure, l’unico modo per sopravvivere alla sofferenza che ci circonda, è trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che, al momento, e non sappiamo per quanto ancora, nessuno ci può togliere, e farla fonte di piacere.

Alla fine, sta tutto nell’accettare che la felicità sia una lama ardente (Fleur Jaeggy, La paura del cielo, 1998, Adelphi), e quindi non vi sia nulla che non porti con sé sofferenza e dolore. Accettare che quel filo d’erba domani non ci sia più, perché la siccità lo ha spezzato, conferisce senso al piacere che proviamo nel presente. L’unico modo è correre il rischio. Tornare a casa, tornare a sé stessə, alle cose mute, anche se poi si muore, proprio perché poi si muore.

Punta sulle nuvole

sugli alberi e su altre cose mute

(Franco Arminio, Punta sulle nuvole, 2020, AnimaMundi)

Elena Rebecca Cerri

© Credit immagini: courtesy of Elena Rebecca Cerri + link

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