Ed eccovi me all’età di 6 anni, protetta da una giornata afosa inaspettata in una macchina con l’aria condizionata. Nel mio ricordo non c’è un mondo fuori da quell’auto, solo tanto sudore e mia mamma alla guida.
«Tutto bene? Perché stai così?».
Era la primavera del 2005, mia mamma era venuta a prendermi a scuola: l’ultimo anno di scuola materna. Mi sentivo già grande, a volte a casa mettevo i vestiti di mamma e fingevo di essere lei.
Quel giorno percepivo il sole come un nemico e appena salita in macchina mi sono spalmata davanti allo sbocco dell’aria condizionata.
«Mamma ho caldo», sussurrai lamentosamente, con una goccia di sudore che mi scendeva dalla fronte.
Il tragitto per tornare a casa era breve, ma quei pochi minuti di tregua dal caldo soffocante erano essenziali per sopravvivere, pensavo. Non sarei stata in grado di tornare a casa a piedi.
Di solito, quando salivo in macchina, non stavo un secondo zitta, parlavo tutto il tempo. E stare in macchina da sola con mamma era uno dei miei momenti preferiti, perché c’eravamo solo lei e io: lei era tutta per me, lei ascoltava solo me. Parlavo a ruota, non ricordo nemmeno di cosa, ma so che parlavo un sacco.
Quel giorno, però, faceva troppo caldo anche per parlare.
Il mio ricordo si interrompe qua, non voglio mentire. Non è successo nulla di speciale dopo. Però, provando a ricostruire il mio ricordo, credo sia andata più o meno così: mamma ha parcheggiato, io sono scesa dalla macchina strisciando i piedi e tenendo il broncio, come tutte le volte in cui ero stanca. Abbiamo aperto il portone di casa, abbiamo chiamato l’ascensore (perché tre piani di scale con quel caldo non penso proprio di averli fatti), abbiamo aperto la porta, siamo entrate in casa. Io ho fatto merenda e mamma si è messa a preparare la cena per tutti.
Immagino sia andata così.
Un’altra cosa che mi piaceva fare con mamma, oltre a stare da sola con lei in macchina, era un giochetto che ripetevamo sempre con lo stesso copione: lei mi chiedeva «Quanto mi vuoi bene?» e io le rispondevo sempre «Due mondi più mezzo», perché per me quella era l’unità massima di qualsiasi cosa, più grande dell’universo. Chissà come mi era venuto in mente.
Però ero sincera mamma, ti voglio bene due mondi più mezzo.
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Melda Mehja