Cammina lenta. Spossata dalla mattinata. Accelera nello schivare un triciclo carico di frutta: un uomo che le urla di spostarsi a spingerlo. Attraversa il parco e poi giù, dritti verso il centro città. E pensare che arrivando dall’aeroporto qualche settimana prima si era persa. Sono sottilissimi grovigli le vie che vanno accavallandosi l’una all’altra in una delle città più popolose del Paese: Hà Nội, la capitale del Vietnam. Densa, densissima di gente, le carte in regola ce le ha tutte per essere assimilata, nell’immaginario collettivo, alle altri metropoli asiatiche: caotiche, puzzolenti, trafficate e rumorose. Se non fosse che Hà Nội non sia niente di tutto ciò; non è caotica, non è vero, e anzi ben discerne zone residenziali, attrazioni turistiche, e piccole isole di pace distanti dai rumori metropolitani. Non è puzzolente, ma pervasa dal costante odore di qualcosa. Mangiare in strada, accucciati su una di quelle piccolissime seggioline di plastica rigorosamente in semi-squat, è assai più frequente che non tornare a casa dal lavoro e cucinarsi qualcosa. Intere famiglie, studenti e studentesse, uomini di mezza età in compagnia degli amici di sempre, donne e anziane che chiacchierano amorevolmente tra un boccone e l’altro, tutti mangiano per e nella strada. Letteralmente. Che non ci si aspetti di essere accomodati con tanto di tovagliolo di stoffa e tre posate su una sedia con il cuscino e le gambe riposte sotto il tavolo. Ma figurarsi, che laboriose complicazioni perditempo da occidentali snob, ad Hà Nội si mangia sulla strada, o al massimo sul marciapiede, coi motorini che ti passano a un centimetro da dove stai seduto e il cane che, se passando gli scappa, te la fa sulla caviglia. Un cestello di posate e tovaglioli (a volte neanche quelli), quattro salse (la soia equivale al nostro parmigiano), e il piatto che lo poggi su un tavolo plasticoso così basso che ricorda quello dell’asilo (nido).

Non è nemmeno una città rumorosa. È uno zibaldone di persone che corrono al lavoro, che il mestiere se lo inventano improvvisandosi barbieri sul marciapiede dissestato di una strada del centro (che devi scendere per un pezzo in strada nel tentativo di circumnavigare quell’accampamento tirato su alla meno peggio, perché ormai quel pezzo di asfalto se lo sono auto-appaltati), che bivaccano con amici seduti al bar (solo che ci sono duecento bar sulla stessa strada quindi, per forza di cose, è un sovrapporsi di voci sconnesse tutt’intorno). Per quanto riguarda il traffico.. .non mi viene in mente come uscirne perché non ce n’è modo: è uno stillicidio vero, un circolare ininterrotto di motorini a clacson spiegato, quasi che quello davanti stesse fermo perché rincoglionitosi al semaforo e non perché impedito nei movimenti da 200.000 motocicli tutti ammassati che lo precedono, anche loro strimpellanti a più non posso. Io non so davvero immaginarmelo adesso come sia laggiù col Covid.
Ma, pur constatando come le autovetture non vadano di moda, sono lente ragazza e qui di tempo da perdere non ne si ha, è un’esperienza che fortifica quella di rimanere piantati sul ciglio della strada per una decina di minuti abbondanti nel disperato tentativo di attraversare evitando di farsi investire. Per la gente di lì? Come bere un bicchier d’acqua, don’t worry you won’t die: i pedoni si gettano letteralmente in pasto alla fiumana di motociclette assordanti (senza scomponimento, senza urli ineficcaci nè braccia gettate al vento nel disegnare gesti convulsi che attirino l’attenzione dei conducenti e ti evitino di morire spiaccicata sull’asfalto); buttano un occhio a destra, uno a sinistra, e senza affrettarsi nemmeno troppo (i motociclisti non si fermano ma semmai ti schivano piegandosi a destra o a sinistra che manco in MotoGP) si ritrovano dopo poco sul marciapiede di approdo.
Ma in questa Hà Nội ci si muove volentieri a piedi dopo una mattinata intera passata al parco circondata da bambini urlanti, del tutto riluttanti a imparare l’inglese, quanto piuttosto interessati a buttarsi l’acqua addosso. Pace, è giugno in fondo. E le mamme mica si scompongono come qui da noi. Non male in fondo, quantomeno quel volontariato le sta pagando la possibilità di piantare le radici dall’altra parte del mondo per qualche mese. Gambe in spalla allora, che chissà dove ci porterà la strada oggi.

Le piace così, camminare disinvolta in direzione del centro, ma perdendosi nei viottoli collaterali alle arterie principali sommerse dal traffico che non si spegne mai. Gira a destra in una viuzza stretta, fa due o tre curve, arriva in fondo ed è strada chiusa. Torna indietro, ne tenta un’altra, questa volta con successo: sbuca su un corso un po’ più popolato, ma tranquillo. Due o tre motorini al minuto, tutta un’altra musica rispetto a dove si trovava poco fa. C’è pure il sole, che bella questa quiete, non silenziosa, ma piena di rumori a lei sconosciuti. C’è un carretto e due o tre vietnamiti che aspettano pacatamente il loro turno fumandosi una sigaretta. Avrebbe proprio voglia di qualcosa, qualcosina per ingranare il pomeriggio e tirar sera.
Ritornando alla questione degli odori: com’è possibile che qualche bar, sì sì va bene in strada, ma com’è possibile che una brioche o un paninetto da sbocconcellare facciano tanto odore? Si mangiassero Gocciole e croissant alla crema certo la questione sarebbe diversa, ma ad Hà Nội mai che le sia capitato niente del genere: si apre a colazione con una bella ciotola di Phở bò (brodo di noodles e carne), e si chiude alla sera con una scodella di Bún chả (noodles, maiale alla griglia e verdure), lumache, involtini primavera, spiedini di carne, di pesce o di fritti misti, stufati di verdure rice on the side. Cafferino al pomeriggio? Rigorosamente Cà Phê Trứng (caffè all’uovo). Ecco spiegato quell’amalgamarsi di odori che permeano la città da mattina a sera, di notte pure, ininterrottamente.
Il carretto fa i Bánh mì (pseudo-baguette farcite con fegato di pollo e carne di maiale) e lei si mette in coda per ordinarne uno. C’è il prezzo appiccicato sul vetro della vettura, meno male, non s’ha da contrattare evviva!

Riprende il cammino affondando i denti nella sua conquista. Tutt’intorno la gente vive la sua giornata, ignara della sua meraviglia nell’osservare curiosa ogni particolare a lei non familiare, ogni movimento inconsueto, tutto ciò che la circonda e che non ha mai visto prima d’ora. Qualcuno si gira, le butta un occhio, ma niente di più, siamo ad Hà Nội d’altronde, e i turisti non mancano. Tuttavia, è inutile cercare di passare inosservati: nonostante la t-shirt anonima, i pantaloni di stoffa gialla bucati, i sandali consumati, lo zainetto ciondolante da una spalla, e le goccioline di sudore che ti appiccicano alla faccia i capelli sfuggiti alla coda di cavallo, rimani bianca. Bianca e, con poco margine di errore, occidentale. Fa niente, fingi di passeggiare disinvolta come vivessi lì da sempre. E non sorridere come una deficiente.
Ci sono colori ovunque, fili della corrente penzolanti dagli edifici e, dalla strada, si vede in casa di chi ramazza con la scopa, fa i compiti o guarda la tv. Si sta bene, così bene che quasi non ti accorgi di essere bagnato fradicio di sudore per l’afa soffocante. Prende una viuzza seguendo una donna che si trascina un sacchetto evidentemente più pesante di lei. Meraviglia fulminante. Le si para davanti uno specchio d’acqua, un lago il cui perimetro è disseminato di bar e seggioline appostate all’ombra degli alberi adiacenti. Non che il lago di per sé sia una novità, ne aveva già visto uno, piuttosto grande, nel centro della città, una meta turistica piuttosto ambita. Ma che schifo i turisti. Quale piacere si può trovare nel trotterellare in giro limitandosi a bazzicare i luoghi in evidenza sulle mappe (quelli col bollino rosso enorme che non sfuggirebbe nemmeno all’ultimo degli imbecilli) quando si è dall’altra parte del mondo, dove tendenzialmente qualsiasi via ci riserverà una dissociazione culturale? Bah, meglio per lei, che si accalchino pure tutti nel centro della città per poi fiondarsi a cena nel primo ristorante di TripAdvisor, più luoghi non battuti a sua esclusiva disposizione. Più terreni popolati di gente del posto che nessuno ha l’intraprendenza di esplorare.
Percorre tutto il perimetro del lago passo passo, godendosi la vista di questo spazio pubblico che tanto le ricorda i giardini di quei castelli fatati nei cartoni che guardava da piccola. La pace dei sensi. Vorrebbe fermarsi, sedersi su una di quelle seggioline, ordinare un caffè, sfoderare il suo romanzo e andare avanti a leggere cullata da quell’armonia per il resto del pomeriggio, ma così facendo perderebbe tempo, deve arrivare in centro, vuole vedere un altro pezzo di città. Ogni giorno che passa è un giorno in meno che ha da vivere in quel luogo, e in men che non si dica sarà ora di tornare a casa.

Si perde ancora un’ora zompettando in giro, poi la gamba le fa male e vorrebbe fermarsi a bere una cosa. Maledetta sciatica. Pare abbia un’ernia (chissà come cavolo le è uscita poi) che a volte pulsa forte e non riesce a dormire. Si è comprata una fascia che le tiene stretta la coscia, e così riesce a camminare anche per 4 o 5 ore attutendo il dolore. Rimanere chiusi in casa? Ma quante volte ci si torna dall’altra parte del mondo, stile vagabondi, backpacking? Non se ne parla nemmeno. Gambe in spalla e si continua: alla ricerca di un bar.
Passa un edificio grande, pomposo, con gli stemmi e le bandiere vietnamite che sventolano. Ufficio amministrativo del Partito Comunista. Le fa strano vederselo lì davanti così, alla luce del sole, uno degli organi funzionanti di quel governo di cui tanto ha letto nei mesi prima di partire, di cui tanto si racconta, delle censure in atto, delle limitate libertà dei cittadini, delle presunte violazioni dei diritti umani. Eppure lui se ne sta lì: un bell’edificio in cemento chiaro, emblema di uno Stato che respira. E che ogni giorno produce. Avvista un mini-market dall’altro lato della strada, attraversa e si fionda a comprare una Coca Cola fredda ghiacciata; poi si siede sul bordo della strada e la sorseggia piano piano. Rigenerandosi.
Sta ancora immaginandosi gli interni di quel palazzo maestoso, che si imbatte in un via vai di persone, dal marciapiede ad un cortile interno. Cosa andranno mai facendo? Si avvicina cauta, quasi sospettosa, varca la soglia del cancello che dà sulla strada e si ritrova a camminare sul perimetro di lanterne e fiori che circonda un edificio quadrangolare. Dai colori chiari. Oltre alla lanterne e a bandierine penzolanti, qualche ornamento dorato. Sale gli scalini che conducono alla porta principale e, approssimato l’ingresso, si ferma esitante davanti a una stuoia di scarpe, non allineate, bensì buttate a casaccio, tante cuccette per piedi stravaccate sul tappeto rosso sotto il terrazzo porticato che cinge l’edificio. Butta un occhio dentro: un silenzio carico di pensieri. A destra un altarino sul quale sono esposte, tutte ben allineate come alla recita di fine anno, le offerte più disparate (che siano offerte lo si intuisce dalla devozione con cui la gente vi si prostra): frutta, fiori, dolciumi, e i più disparati tipi di merendine (tante confezioni di Kinder Delice che assolvono in silenzio alla loro sacra funzione decorativa).

Solo allora nella sua mente fa tana l’altarino piazzato all’ingresso della casa della famiglia vietnamita che la ospita. Che buffi i tempi buddhisti, quanta serietà per dei pacchi di biscotti. Non fa in tempo a formulare questo pensiero che viene pervasa dall’atmosfera che domina nel tempio: un silenzio di piombo nonostante la folla di persone che abitano quello stretto spazio, tutti rigorosamente in ginocchio a fare su e giù di fronte alla statua dorata di un Buddha dallo sguardo acquiescente alto 3 metri piazzato in fondo alla sala. Panciuto, fa un cenno con la mano ai fedeli nell’atto di assolverli da chissà cosa. È a tal punto conquistata da ciò che non ha mai visto prima (come diavolo ci era finita in quell’angolo di paradiso trapiantato nel centro di una delle più popolose metropoli sulla terra?), dal contatto con quelle persone che nemmeno paiono accorgersi di lei tanto sono immerse nei loro pensieri, che non può fare a meno di assecondare la sua voglia di sedersi anche lei sulla ginocchia. È piacevole il contatto delle sue gambe esauste col tappeto rugoso. Chiude gli occhi e osserva.
Nemmeno il tempo di riorganizzare nella sua mente ciò che è appena successo, di registrare a pieno titolo l’evento del quale è stata testimone, che si ritrova catapultata nella fiumana di motorini che schizzano in direzione del centro città. Ci siamo quasi, riconosce lo stile familiare dei palazzi coloniali francesi (una petit Paris in Asia), e accelera perché ormai la luce è calata e tra non molto sarà ora di tornare a casa. Cammina lungo il fiume, butta un occhio a due o tre bancarelle, ci sarebbe quella sciarpa molto carina che però lì costa troppo, che turistata, e che privilegio vivere con gente del posto, ti accorgi subito dei prezzi fuori misura che i commercianti esibiscono nel centro di Hà Nội. Dieci metri dopo, non può fare a meno di sorridere di fronte alla scena di un signore (mezza età, pelle bianca e naso scottato dal sole, panciotta da birra, braghe corte e cappellino rigorosamente di paglia), un turista senz’altro, che sfodera alla moglie un sorriso compiaciuto per essere riuscito a ribassare il prezzo di una tazza, ignaro di aver pagato comunque uno sproposito in relazione al valore dell’oggetto (prodotto davvero in Vietnam?).
Pensava si sarebbe pentita di aver fatto tardi a raggiungere il cuore della città, e invece in fondo non le dispiace, lo conosce a memoria ormai, e poi così ha avuto modo di immergersi per bene in quelle parti che ancora non aveva avuto occasione di esplorare. E ha scoperto come pregano i buddisti lì.
Svolta all’altezza della pagoda sul lago, alla ricerca di un angolo tranquillo dove tirar fuori il cellulare per studiarsi la strada del ritorno a casa, e non può fare a meno di alzare lo sguardo, accecata dalle luci del palazzo che le si erge di fronte. Un centro commerciale. Un’enorme catena distributiva di merce prodotta altrove e rivenduta lì, ad Hà Nội, nelle stesse modalità di qualsiasi altra metropoli del mondo. Osserva le colonne bianche di quell’edificio tirato a lucido, e si avvicina: ha voglia di vedere com’è fatto dentro.

Varca la soglia e si rende conto che lì, in quel momento, potrebbe anche trovarsi nel centro di Parigi, di Roma, di Londra o di New York, che niente sarebbe diverso. Se non per i supermercati che vendono noodles pronti da cuocere anziché pasta Barilla. I pavimenti laccati, le insegne luminose, i cartelloni pubblicitari, i loghi dei negozi, gli abiti dei commessi e delle commesse, tutto le ricorda casa. E non l’assale la malinconia però, al contrario, stride enormemente con tutto quanto ha visto in quella giornata e non solo quello spettacolo di luci e persone. Si era quasi dimenticata ormai che forma avessero quelle cose conosciute, tanto si stava abituando a essere sorpresa di continuo da cose che non conosceva o non aveva mai visto prima. Sente come un abbraccio in quel posto, un qualcosa di impalpabile che le ricorda che quello è il suo universo di appartenenza. Fa piacere, ma per poco. È un abbraccio freddo, non ne ha voglia adesso, ha ancora tanto da vedere, da fare, da imparare. È ora di uscire di lì, le sta stretto quel posto.
Usa il bagno della toilette laccata all’ultimo piano però, quello non glielo leva nessuno, si guarda allo specchio (si era quasi disabituata alla cosa), e ridiscende le scale in direzione dell’uscita. Sorride al portiere che le tiene aperta la porta, anche se forse così puzzolente si sarebbe sentita più a suo agio ad aprirsela da sola, e in un attimo è di nuovo fuori. Ad Hà Nội. Da sola.
Compra un gelato Algida, un Cornetto, al supermarket del centro, giusto perché la diverte l’idea di protrarre ancora un pochino quella dissociazione che ormai sente sua: camminare nel centro della capitale del Vietnam con un gelato Algida. Si piazza le cuffie, Radiohead, e pian piano si incammina nella direzione di casa, della casa dove è ospite ora. Solo una cosa nota sulla via del ritorno, solo un pensiero le resta appiccicato in testa per tutto il tragitto: Hà Nội è una città che non si spegne mai, nemmeno di notte.
TO BE CONTINUED
Gaia Bugamelli
© Credit immagini: Courtesy Gaia Bugamelli