Dove nessuno guarda

Distingue quattro gambe di plastica bianca, scarpe marca Almani prese al mercato, la punta in alluminio del suo bastone e alcuni sanpietrini levigati e sconnessi, ma della carta proprio nulla. Il sangue comincia ad arrivargli alla testa. Poi ecco il 3 di quadri che stava cercando Alberto. 

«Ma l’è possibile che giochi il carico di prima mano?! Te l’è sii proprio un pirla!» urla rosso in viso per un mix di alcool, rabbia e per la rapida risalita.

«Ti devi calmare Alberto! Me lo sento che il ragioniere non ha mica la briscola, lo sento nel gomito. Non sbaglia mai. Prepara la briscoletta.»

Alberto e Saverio giocano in coppia a briscola.

A fronteggiarli sotto il portico del ‘Bar-Nello’, i soliti. Gianfranco detto ‘El Chiod(il chiodo), non per l’aspetto fisico, infatti ha una panza tanta dal ’82 quando l’Italia ha vinto il mondiale. «Se vinciamo contro i crucchi dell’ovest, mangerò ogni giorno salsiccia e crauti.» Abbiamo vinto e sicuramente gli insaccati non sono proprio il meglio per la linea. Comunque il suo nome deriva dal suo chiodo. Giubbotto Harley Davidson 1963, scollo a V mostrante petto villoso e canotta, cerniera obliqua sempre chiusa, almeno fino all’82 proprio quando il suo metabolismo ha incontrato il piatto tipico germanico. El Chiod ha sempre sostenuto di aver avuto una Harley che usava solo in poche occasioni per paura di rovinarla e che dovette vendere quando arrivò il primo figlio, ma in paese si era unanimemente convinti che l’unica moto con cui lo si era visto girare era l’Ape Piaggio, quando da giovane lavorava come fattorino per la Berguzzi. Ma, in fondo cosa serve una Harley motorizzata quando hai un Harley sempre addosso? Eccezione facevano solo pochi casi rari e pesati. Funerali, incontri con il presidente della Berguzzi e il suo matrimonio. 

C’è chi vociferava fosse ormai una sua seconda pelle. Si vede però che con il passare del tempo il giubbotto era stato maneggiato delle mani di sua moglie Gabriella.

Con un’ampia risata El Chiod guarda Alberto mentre se la prende con il compagno e gli sventola la carta raccolta da terra in faccia. Il 3 di quadri era stato lanciato da Saverio, parallelamente a una bestemmia, con così tanta foga da farlo cadere dal tavolino di plastica. 

Mentre però Saverio giustifica la mossa avventata il compagno di gioco del Chiod, il ragioniere Ermanno, con un gesto lento e preciso tra il sadico e il divertito appoggia sul tavolo un re di briscola.

 «Mi t’ammazzo! Coglione! Scappa, scappa che se ti ciapo te sfrango contro il muro!» urla Alberto e con una serie di goffi movimenti lancia le proprie carte sul tavolo e poi cerca di allungarsi e prendere il bavero di Saverio per ‘schiacciarlo con forza contro il muro’. 

Tra le risate del Chiod e il volto atterrito di Saverio, tradito dal gomito-oracolo, non si poteva non notare il leggero sorriso sul volto del ragioniere, quell’ometto conosciuto dalla compagnia 20 anni prima durante una partita della coppa dei Campioni a casa di El Chiod e di sua moglie Gabriella. Alberto quella volta era venuto in Panda con l’inseparabile Saverio, El Chiod li aspettava alla porta di casa. Arrivato Ermanno, tutti lo osservavano e lo trovavano strano, estremamente rigido e apatico, avevano pensato fosse autistico. Scoprirono in seguito che era rimasto vedovo da poco a causa di un tumore che gli aveva portato via la moglie. Quella sera di ormai 20 anni fa Ermanno non aveva aperto bocca, aveva occhi bassi puntati ai piedi. La compagnia aveva capito che era stato invitato da Gabriella per paura che potesse mettere per la disperazione la testa nel forno di casa, se fosse rimasto solo. 

La partita finì con una vittoria del Milan, ma Ermanno non proferì parola e non lo fece per i 2 mesi di uscite e partite di briscola seguenti, sempre sotto l’ala protettrice del Chiod che su indicazione della moglie era diventato il suo body-guard. 

«Non può essere. Il mio gomito sente sempre quando qualcosa sta per accadere. Pensavo intendesse una vittoria 120 a 0 a briscola» dice Saverio.

Tra tutti Saverio è il più felice. Una felicità semplice, frugale, invidiabile. È stato per anni bidello della scuola media. Prendeva la corriera ogni mattina per la città e tornava nel pomeriggio. I bambini lo adoravano perché potevano rigirarlo come un calzino con gli scherzi, ma lui non riusciva a capire gli insulti velati dei ragazzetti, allora restava a ridere con loro, mentre loro ridevano di lui. Non è mai stato sposato, al contrario degli altri 3, e vive nella casa che era stata dei suoi genitori. Prende tutto con la curiosità di un bambino e, come detto, non è mai triste, o meglio, quando lo è, può essere rasserenato da un bicchierino di vino. L’ignoranza gli ha fatto da scudo sin da quando era piccolo, si preoccupa solo delle cose che può capire. In fondo è  sempre stato un po’ invidiato dagli altri per la sua capacità di vivere solo e soltanto nel ‘qui e ora’ senza apparentemente avere rimorsi o particolari aspettative per il futuro. 

I quattro amici hanno vissuto vite diverse. Non ci sono molti punti di unione. Seduti sotto quel portico a giocare ormai da anni seguendo la stessa routine: B&B. Bianchino e Briscoletta. Se proprio va bene alla sera sul ‘cinque’ fanno vedere le partite. Stanno insieme e spesso anche loro si chiedono il perché. Sentono il bisogno di sentirsi protetti. Chi più chi meno. Sono 4 vecchietti sulla 70ina in un paesino costruito per i dormitori degli operai della Bergozzi. Un unico bar, quasi nessun giovane. L’unico ad avere figli è El Chiod, appena hanno potuto, però, sono scappati da quel pezzo di provincia dimenticata da Dio. 

Ma in questo giorno di primavera senza nuvole, forse qualcuno si è accorto di quell’angolo di provincia. Il gomito-oracolo di Saverio ci aveva azzeccato ancora: qualcosa stava per succedere. 

Poco tempo dopo la sfuriata di Alberto il silenzio regnava nella piazza del piccolo paese. 

Il vento normalmente s’infilava nei campi di grano dove le bisce muoiono schiacciate dal tacco degli stivali degli agricoltori, strisciava contro le fiancate delle auto dei pochi giovani in camporella nelle strade sterrate dei boschetti, entrava nelle finestre aperte delle vecchie vedove del paese che aspettano sempre qualcosa che non arriva mai. 

Oggi il vento non c’è e ha lasciato il suo posto di osservatore speciale a quei quattro amici.

Il completo silenzio appena creato viene scosso da un ‘TOC’. 

Saverio gira la testa verso la piazza ai piedi del sagrato della chiesa. Sgrana leggermente gli occhi e mentre tira sul col naso, dice: «Avete sentito?»

«Cosa?» El Chiod sorseggia il bianchino.

«Qualcosa… Qualcosa ha fatto un rumore là.» Indica a dieci metri con l’indice. «Ho sentito un toc»

«Sarà un piccone che è volato via»

«No. Era un rumore tipo un colpo frusta.» Con gli occhi fissi e il dito indice ancora puntato, arretra lentamente con la sedia di plastica per alzarsi. A passi si incammina.

Gli occhi degli altri gli stanno addosso. Saverio a metà strada è già sotto la luce del sole. Si gira verso gli altri come a dire ‘venite pure voi’.

Ormai la partita era andata a monte e il pomeriggio era ancora lungo.

Si alzarono anche loro con movenze rallentate seguite da una serie di «Oissa» «Oplà».

Sono le tre del pomeriggio quando dall’orizzonte delle gobbe piegate come raccoglitori di patate si alza Alberto con un urlo: «Qua, venite!»

Teneva nelle grosse mani qualcosa di bianco e affusolato, grande una ventina di centimentri. All’ombra delle teste ravvicinate in un piccolo cerchio intorno a quello strano oggetto ci si chiede cosa sia, ma sopra tutti El Chiod sancisce. «E’ un dito».

«Un dito?»

«Si, è un dito di una mano di statua, leggermente scheggiato, ma è proprio un dito.» 

Saverio se lo fa passare e lo rigira tra le mani.

«Ma come può essere qui?»

Alberto, Saverio ed El Chiod si interrogavano. Poi lentamente uno ad uno videro che Ermanno aveva già trovato la soluzione. Guardava verso il campanile della chiesa che distava una decina di metri. Il campanile è alto 40 metri e scavati nelle colonne che reggono il tetto e il soppalco delle campane ci sono 4 santi, uno a colonna. 

«Deve essere caduto da una di quelle statue.»

I loro occhi erano concentrati verso quegli esseri umani di marmo alti circa due metri o poco più. Non riuscivano a scorgere quale fosse quello menomata.

«Bom, inizia a fare caldo torniamo al tavolo.»

El Chiod si gira e tira un colpo ad Alberto per farsi seguire.

Sotto al portico sono solo in tre, Ermanno è ancora in piedi a guardare il campanile con in mano quel dito di marmo bianco fattosi dare da Saverio.

«Dobbiamo riattaccarlo.» 

«Ma ragioniere sei diventato scemo?» lo dice Saverio ma sembra che sia il pensiero pure degli altri.

Tutto è fermo. Il rumore in lontananza della corriera in partenza verso la grande città arriva alle loro orecchie sempre più lieve.

«Io vado a rimetterlo al suo posto.» Ermanno si indirizza verso la via di sampietrini di fianco la chiesa, verso la casa parrocchiale. Dopo una leggera salita la strada si divide con un bivio. A sinistra dopo qualche metro ci si trova in canonica, invece, subito a destra vi è la porta per il campanile.

«Ue, non puoi mica salire lì in alto. È vietato. Dove stai andando? Oh Ermanno!» El Chiod ansimava mentre urlava queste parole. Quasi non si accorge di essersi incamminato dietro a quel vecchio un po’ curvo. Praticamente insulto dopo insulto, passo dopo passo erano già tutti di fronte alla porta del campanile. 

«E’ chiusa.»

«Bom, fine. Bella gita. Ora torniamo al bar.»

«Dobbiamo trovare le chiavi per salire.»

«Siamo troppo vecchi persino per starnutire senza avere la paura di pisciarci addosso figurarsi salire su un campanile ad attaccare il dito di una mano di una statua che nessuno guarda mai.»

Ermanno si gira verso gli altri mostra i suoi occhi azzurri. Prende un profondo respiro e con la massima calma dice la frase più lunga che gli si è sentita dire negli anni dai 3 amici.

«Da quando sono solo non è mai successo niente. Niente. Io mi sento un dimenticato, da tutti, dalla vita stessa. Ho solo voi, ma a dire il vero, non ho mai nemmeno avuto il coraggio di raccontarvi di me. Ora io sento che questo non è successo per caso. Forse qualcuno o qualcosa si è accorto di noi.»

Sentite quelle parole abbassarono tutti lo sguardo. Ognuno ai propri piedi vede qualcosa di diverso. Il sole negli occhi in un campo di pallone, la prima scopata appartato in macchina con la fidanzatina del tempo, la nascita del primo figlio. Nessuno però riesce a vedere il momento esatto nel quale è iniziata la latitanza di quella che una volta era la loro vita. Tutto ad un certo punto è stato coperto da un telo grigio, tutto si è ovattato. Qualcuno gli aveva privati di loro stessi. Non restano che quei ricordi e poi niente.

«Vado un salto a casa a prendere la super colla, voi andate in segreteria della casa parrocchiale, le chiavi solo lì.» El Chiod si gira e si incammina, Ermanno lo ha convinto.

La sala d’attesa della segreteria è un piccolo cubo con un’unica finestra sbarrata. Ai muri appena intonacati sono appesi vari calendari di anni passati e un orologio fermo sulle 14.34 da 12 anni. Sopra il pavimento in cotto ci sono 6 sedie di ferro con il sedile in pelle finta che squittisce quando ci si appoggia il sedere. Un piccolo lampadario sta in mezzo alla stanza e fa una luce gialla e fioca.

Saverio continua a tirare su col naso. Alberto si liscia i capelli e aggiusta la camicia. Ermanno aspetta seduto un po’ ingobbiato nelle sue spalle rigirandosi la dentiera in bocca.

«Venite»

Oltre la porta, vedono una scrivania che appoggia su un tappeto variopinto. Non poterono non fare caso all’odore acre tipico del mangime per i polli che infestava la stanza. I tre pensavano provenisse dai campi, ma man mano che si avvicinavano capirono che proveniva dalla segretaria. Una signorona con capello grigio raccolto, volto penzolante come quello dei bulldog, occhiale sulla punta del naso e occhio guercio. «Che avete bisogno? L’entrata della Caritas è dell’altra parte.» La guardavano con il timore che la piccola seggiola dai cui lati strabordava quell’enorme deretano potesse esplodere in ogni istante.

«Volevamo sapere se potessimo avere le chiavi per salire sul campanile.»

Ride di gusto Marzia la segretaria e ad ogni risata l’odore di mangime aumenta.

«Secondo me questa si è mangiata un pollaio intero.» Pensa Saverio.

«E’ vietato salire sul campanile cari signori. Mi dispiace, ma dovrete trovare altro per occupare il vostro tempo.» Intanto si gira verso il computer degli anni ’90 a fare finta di scrivere sulla tastiera.

I tre si guardano poi Alberto indica col il bastone un contenitore a forma di casetta degli uccelli appesa al lato della finestra che dà verso il giardino interno della casa parocchiale. Lì dentro si vedono chiaramente diversi mazzi di chiavi. La chiave del campanile deve essere lì per forza.

«Senta Marzia, sarebbe una cosa veloce-veloce. Saliamo e scendiamo in 10 min, vedrà che nessuno se ne accorgerà.»

Il bulldog che stava in quella donna si risvegliò tutto d’un tratto prova ne era la bava ad un angolo della bocca.

«Allora non mi sono spiegata bene. Voi non potete salire su quel campanile!» Fa un tentativo per alzarsi, ma capisce che non ne vale la pena. «Io non so cosa voi vecchi stiate pensando di fare andando su quel campanile, ma lasciatemi dire che fareste solo una gran… El Chiod? Sei tu? Da quanto tempo, come stai?» Quello Yeti con sembianze di donna si era calmato alla vista di El Chiod appena entrato nella stanza. A quanto pare la non più giovane Marzia aveva da tempo immemore una cotta per quell’uomo, una di quelle toste. Anche se grosso di panza, El Chiod, infatti, possedeva sin da giovane quell’avvenenza da Fonzie di provincia con cui faceva numerose conquiste e consumava quelle numerose avventure tra i campi sterminati di grano intorno al paese usando sempre le solite parole che riciclava abilmente, fin quando non conobbe Gabriella, sua moglie. Da quel giorno era marcato a vista e guai a farla arrabbiare. Col passare del tempo e delle ciabattate gli era passata la voglia di fare il Casanova, ma la faccia da ganzo gli era rimasta. 

 Girano voci che Marzia sia diventata zitella, e che si sia circondata di una marea di pappagalli in casa per compagnia (sarà dovuto a questo lo sgradevole odore), proprio perché perdutamente innamorata di quell’uomo dal chiodo sempre addosso con l’irresistibile fare da duro, ma che era già sposato con Gabriella, la bella del paese. Tutti però in fondo sospettano che sia rimasta zitella solo perché è estremamente antipatica e nata con la malsana voglia di dar problemi alla gente. El Chiod capendo la situazione fa per avvicinarsi, passa la colla appena presa da casa in mano ad Ermanno e fa un cenno col capo verso la scatola sul muro. Avevano già capito tutto. Marzia la segretaria manteneva gli occhi fissi sul suo amore mentre parlava delle solite cose delle segretarie delle parrocchie dei piccoli paesi: pettegolezzi inutili finalizzati solo a seminare zizzania. I tre escono dalla stanza, fanno il giro e arrivati alla finestra, fortunatamente aperta, iniziano a sporgere il bastone di Alberto oltre la tendina. Questo si incastra perfettamente con il piccolo tetto di legno della cassetta delle chiavi a forma di casetta per gli uccelli. Il momento è critico, El Chiod cerca di tenere fuori dalla vista di Marzia il bastone tremante con all’apice la cassetta staccata dal muro, che inizia leggermente a tintinnare. È la loro ultima possibilità. Se li beccasse non potrebbero più continuare. I loro respiri sono sincronizzati. Più i secondi passano, più l’ansia sale, fino a quando la cassetta non passa sotto il bordo di legno della finestra e sfiorandolo cade rumorosamente sul giardino, i tre, a quel punto smettono di respirare. Il bulldog si gira a controllare cosa sia successo, ma El Chiod le sfiora i capelli unti e le dice: «Hai cambiato taglio per caso?» 

A quelle parole Marzia si volge verso l’amato e inizia a spiegare quanto sia difficile trovare un bravo parrucchiere da quelle parti e che preferisce fare da sé con le forbici e un complicato sistema di specchi. 

Dietro a quel fiume di parole El Chiod fissa la finestra alla spalle di Marzia da dove piano riappaiono i compagni di briscola, che gli fanno segno di aver trovato la chiave. Lui sa che se si allontanasse Marzia vedrebbe la cassetta mancante e inizierebbe una rocambolesca rincorsa a quei poveri vecchi, con il suo scooterino posto vicino a sè. Deve sacrificarsi. Guarda i compagni e fa un accennato no desolato con il capo.

«Quell’uomo è un eroe.» Dice Alberto. Presa la chiave in silenzio, rifanno il giro e passando di fronte alla porta della segreteria, sentono Marzia parlare di quanto sia volgare il modo in cui gira vestita la figlia cinquantenne della signora Rosa, tornata al paese, dopo il divorzio «da vera svergognata».

«Gli dovremmo offrire molti bianchini d’ora in poi.» Annuendo a vicenda escono a carponi verso il campanile.

Aperta la porta i tre entrano in quel rettangolo cavo alto più di quaranta metri. Vedono da sotto le travi di legno le campane e da lì le corde per poterle suonare che arrivano fino a terra. La tentazione era molta, ma suonarle avrebbe significato farsi beccare subito. Per raggiungere la vetta c’è una scalinata stretta che sale seguendo i lati del rettangolo con, da una parte il muro e dall’altra solo una sottile staccionata fatta da una singola trave di legno.

«Inizio a pensare che forse non dovremmo farlo» dice Alberto pensando a come dovrà salire scalino per scalino appoggiandosi al suo bastone.

«Forse. Se non volete continuare farò da solo. Un passo alla volta e si arriva in cima» Ermanno scandisce le parole soprattutto per convincere sé stesso. Ricorda quando in luna di miele lui e la sua Maria erano saliti sulla Tour Eiffel, a come si era aggrappato a lei per tutto il tragitto e a come lei lo prendeva in giro. Provava ansia al pensiero di salire così in alto.

«Ormai la boiata l’abbiamo fatta, andiamo a riattare questo dito e via»

Si misero in fila Ermanno davanti, poi Saverio ed Alberto. I primi metri furono lenti, accompagnati dai discorsi di Alberto su come, quando faceva il venditore, aveva conosciuto un famoso scalatore che gli diede dei consigli su come respirare quando si fanno sforzi alpinistici in quota: butta dentro tieni e butta fuori. I metri seguenti furono soltanto lenti e silenziosi. Circa a metà strada il silenzioso ansimare dei loro respiri fu interrotto da un tonfo. Ermanno e Saverio si girarono di scatto e con la coda dell’occhio videro il bastone di Alberto scivolare dalla staccionata e cadere nel vuoto per poi schiantarsi al suolo. Alberto ansimava accasciato sulle scale in preda a quella che potrebbe essere una crisi asmatica sviluppata a causa dello sforzo.

«Alberto! Alberto, stai bene?»

Saverio si avvicina all’amico che qualche minuto prima voleva massacrarlo di botte per un errore in una giocata di briscola. 

«Non respiro, non respiro.»

«Fai gli esercizi di cui parlavi prima Alberto. Prova a rilassarti.» Saverio si gira a guardare Ermanno. Sa che l’amico non può continuare e che deve essere accompagnato giù.

«Non possiamo lasciarlo da solo a scendere. Rischia di scivolare e di ammazzarsi.» Mentre dice questo gli tiene il capo tra le mani e man mano che il respiro si fa più tranquillo toglie la polvere che si è depositata sulla camicia dell’amico.

«Va bene, riesci a portarlo giù da solo?» chiede Ermanno.

Alberto riprende la parola e dice di riuscire a scendere da solo anche senza bastone una volta che avrà ripreso fiato, ma tra sé si chiede cosa spinga quell’uomo che per anni è stato muto ed assorto nei suoi pensieri ogni volta che uscivano assieme a salire alla sua età sopra un campanile per riattare il dito di una statua. Mettendosi a sedere sente le mani di Saverio che lo sostengono e sente l’amico dire ad Ermanno che non lo vuole lasciare solo e che scenderà con lui. Alberto fissa negli occhi Ermanno cercando di scrutarci dentro. Non vide niente che potesse comprendere, era diventato un muro emotivo quell’uomo. Chissà dietro a quel muro cosa si nascondeva.

«Prendi.» Pose il dito di marmo nella mano di Ermanno e seduto ancora sulle scale, mentre Saverio gli da’ una mano per alzarsi vede la schiena leggermente curva e magrolina del ragioniere allontanarsi lentamente. Rimane a fissare gli allacci di metallo delle bretelle di quel piccolo uomo che ondeggiano e luccicano passo dopo passo riflettendo la poca luce che entra dalle finestrelle sui muri. 

Ormai era solo. Questo per lui non era una novità. Era abituato a passare del tempo con sé stesso, magari leggendo o semplicemente pensando ai tempi felici, quando tutto aveva un senso e lui era qualcuno. Era il ragioniere del paese sposato con l’insegnate dell’elementari dove andavano i figli di tutti, faceva gli onori di casa quando Maria era fuori ed era felice di fare i conti delle tasse per qualche vecchietta gratuitamente. Morta Maria lui perse la voglia di fare del bene e passava dal bar a casa. La sua vera fortuna fu proprio trovare questo gruppo di compagni di briscola. Si ricorda bene quando si conobbero. Era solo, ormai da 48 ore. Maria era stata appena accarezzata dal defibrillatore del reparto di terapia intensiva dell’ospedale. Una, due, tre carezze. Ma al suo cuore non bastava e Maria era rimasta stesa bella e semplice come Ermanno l’aveva conosciuta. Si sarebbe voluto stendere insieme a lei in quel letto, coperto da quel seno che l’aveva custodito dal giorno del matrimonio, che lo rendeva cieco e tutt’intorno era un lontano rumore. Sarebbe bastato morire anche a lui, in quel lettino di metallo, sperava di dimenticarsi come respirare e chiudersi in quell’ultimo abbraccio tra le braccia ancora calde dell’unico faro della sua vita. Non era riuscito a trovare il coraggio di morire e ora doveva affrontarne le conseguenze. La prima conseguenza da affrontare vestiva un foulard di pizzo color cachi, capelli raccolti con uno chignon e un volto morbido con le prime rughe. Ermanno riconosceva il volto della vicina di casa che gli aveva presentato Maria, si chiedeva come comportarsi in questi momenti e mentre ragionava:

«Buonasera Ermanno, volevo farle le condoglianze. Maria era molto per me e so anche per lei. Sinceramente non saprei cosa dire. Nulla la potrebbe sollevare in questo momento. Dio ha un piano, confidiamo in questo. Sono qui per accertarmi che Lei mangi. Le ho preparato le zucchine ripiene.» C’era un non so che di militaresco in quella voce. Ed Ermanno come un bravo soldato allungò le braccia e prese la teglia ancora tiepida.

«Non doveva preoccuparsi per me. Comunque grazie.»

Fare le condoglianze è un diritto, non poteva certo pensare in modo diverso. Un diritto per gli altri, ma per chi soffre sono solo energie disperse in parole al vento. Non era bravo nei rapporti umani e aveva una naturale propensione a chiudere il mondo fuori da sé raccogliendosi nelle spalle rinsecchite. Quella brava con le persone era Maria. Era stata proprio Maria a portarlo nel suo paese natale e sempre lei a presentarlo al vicinato, a fare le feste, i biglietti dei regali, a trovargli un lavoro. A Maria piaceva quell’uomo fragile, diceva che chi nasce forte non può essere utile, perché solo chi è fragile può essere abbastanza sensibile da riconoscere negli altri le stesse sembianze, le stesse paure. I fragili sono il collante del mondo, diceva. Comunque la vedesse Ermanno, Maria non c’era e non ci sarebbe stata più. In quel momento era solo e solo voleva stare. Gabriella lo capì, ma prima di andarsene disse:

«Mio marito domani sera vedrà la Coppa dei Campioni a casa nostra con alcuni suoi amici, ci piacerebbe se venisse pure Lei. Le farà bene stare con altre persone.» 

Si voltò seguì il vialetto di pietra fino al cancelletto e solo in quel momento Ermanno poté notare che non era sola. Ad aspettarla c’era un uomo vestito con un particolare chiodo in pelle. Probabilmente aveva lasciato alla moglie il compito delle condoglianze. Muoveva la mano verso Ermanno come il saluto di amici di vecchia data, una faccia squadrata, capelli laccati, ma soprattutto un sorriso estremamente ammiccante.

Tutto iniziò così. In fondo a lui piaceva la compagnia di quegli uomini perché ognuno a modo suo si sentiva solo e quando ci si sente soli è meglio esserlo in compagnia.

Sente qualcosa mentre ansima verso gli ultimi scalini. Qualcuno lo voleva lì in quel momento e mentre pensa a questo si trova all’aperto sotto le campane. Cerca di non pensare al fastidio del sudore che fa attaccare i vestiti alla pelle. Ammira la maestosità del paesaggio sconfinato intorno. Vede i campi ed i boschi che circondano il paesino. È tutto così bello visto da lì, da lì si vede tutto e nessuno può vedere te. Subito però si concentra e cerca di orientarsi, guarda l’orologio e si accorge che tra qualche minuto le campane suoneranno le 16.00 e se non vorrà forarsi i timpani o rischiare di riceve un colpo di campana in testa deve muoversi e fare quello che deve fare. Il piano dove si trova è circondato da una palizzata di metallo che gli arriva poco sopra la vita. Agli angoli vedeva le colonne molto più alte di quello che si aspettava. Non c’è modo di raggiungere le statue se non esponendosi oltre il parapetto, al solo pensiero Ermanno sussulta. A piccoli passi s’avvina alla ringhiera e ingoiando la saliva in punta di piedi guarda giù. Le sue mani sono strettissime intorno al metallo tanto da rendergli le nocche bianche dallo sforza. Vede il vuoto dritto sotto di lui. Gli manca il respiro e con un gemito fa due passi indietro. Inizia a traballare e a dirsi che non ce la può fare, deve arrendersi. Tira fuori dalla tasca il dito di marmo e si chiede se valga la pena morire per uno stupido pezzo di roccia scolpita. Lo stringe con forza e vorrebbe scaraventarlo nel vuoto. Si sente un’idiota ad aver fatto tutto questo, ad aver messo i suoi amici in pericolo, per cosa poi? Solo per riattaccare un dito su una statua che nessuno guarderà mai. È inutile e insignificante. Proprio come lo è lui, come la sua vita, come i suoi amici e come tutto questo mondo di provincia. Non valgono nulla e sarà per sempre così. Nel turbine dei mille pensieri del ragioniere una parola lontana e sottovoce viene a galla, come se qualcuno gliel’avesse sussurrata all’orecchio: «scelto». Ermanno mastica la parola e la ripete. Scelto per cosa? Chi sceglierebbe uno come me poi, un vecchio solo che non conta niente? Più ci pensa, più il turbine s’affievolisce, come quando percepisci che le ventate della tempesta stanno man mano facendosi più rade. Nessuno lo aveva mai scelto per fare nulla, solo Maria lo aveva scelto. Lei e lui si erano scelti a vicenda. Si era sempre stupito di come fosse possibile una tale alchimia tra loro. Era stato scelto per la sua fragilità, perché solo i fragili ricuciono il mondo. Con Maria si sentiva utile e se doveva morire, morirà sentendosi utile per l’ultima volta. Fa un profondo respiro e guarda giù nel vuoto, vede il tavolino dove poco prima stava, fa qualche calcolo e arriva a capire che la statua senza dito deve essere quella alla sua sinistra. Prima di iniziare si mette a pregare. Prega distratto, sotto effetto dell’adrenalina e della paura. Sa che molto probabilmente morirà, ma sa anche che quello è il suo momento. «Ciao Maria, se andrà bene sarò felice, se non andrà bene e cadrò da questo campanile sarò felice comunque, perché ti rivedrò amore mio, il giorno in cui sei morta non ho avuto il coraggio di seguirti, speriamo che ne sia valsa la pena. Spero di renderti orgogliosa.» Detto questo senza indugiare scavalca il parapetto e vi si aggrappa saldamente mentre scorre verso la statua. I suoi calcoli sono esatti, infatti, al S. Agostino di tre metri che gli sta accanto manca un dito indice. Prende con cautela dalla tasca il dito e lo cosparge sull’estremità rotta di super colla, mentre fa questo appoggia leggermente l’addome sul metallo del parapetto così da mantenere l’equilibrio. Prede un profondo respiro e allunga la mano alla cieca in cerca della mano di S. Agostino. Esplora l’aria con la mano chiusa intorno al dito da riattare, ha il timore di perderlo nel vuoto. Si allunga ma non arriva al Santo, decide di staccare la seconda mano dal parapetto ed appoggiarla alla colonna, divarica le gambe e guarda il vuoto esattamente sotto di sé. Quei secondi durarono un’eternità, ma riesce ad arrivare alla mano monca. Si regge alla statua e s’affida alla tenuta del marmo di cui la mano è fatta, perché se si rompessero altre dita Ermanno volerebbe giù con loro. In tutto questo il suo vecchio cuore batte contro le pareti della gabbia toracica con un ritmo mai sentito prima. Tiene gli occhi fissi alla mano. Riesce a riattare il dito e questo regge. Ma ecco quando si dice che il tempo è tiranno. 

Sono le 16.00 in punto e le campane iniziano a suonare. Il rumore assordante prende di sorpresa il ragioniere che perde l’equilibrio e in un attimo si trova appeso nel vuoto attaccato al braccio del santo. Per istinto poggia i piedi sui piedi di marmo come fanno i bambini coi papà. Ermanno impreca e tanta di risollevarsi, ma scivola di nuovo e nell’ultimo estremo tentativo di salvarsi la vita si aggrappa ai piedi nudi della statua, sente le gambe nel vuoto e la sensazione di non riuscire a tenere la presa. Piange ed ansima per la paura ed il dolore. Poco prima di mollare le campane suonano l’ultimo rintocco e Ermanno apre gli occhi perché vuole guardare per l’ultima volta se il dito era ancora su prima di morire, almeno sarebbe morto soddisfatto del suo lavoro. Tra le lacrime vede il dito al suo posto, ma questa non è l’unica cosa che lo colpisce. Ai piedi della statua, precisamente dietro il tallone destro c’è qualcosa. Qualcosa che prima non poteva vedere, di colore marrone scuro. Quel secondo dura un secolo per Ermanno, riesce a distingue oltre la paura, le lacrime e il dolore dei suoi muscoli che si stanno lacerando che quella cosa è un nido. 

Negli anni a venire Ermanno racconterà che alla vista di quel nido sentì come se possedesse una forza nuova e che qualcuno lo sollevasse da dietro e lo aiutasse ad issarsi con i piedi contro i mattoni del campanile per poi riuscire a rimettersi in piedi. 

Tutto è successo in un millesimo di secondo. Il timore e la paura della morte di pochi istanti prima erano scomparsi. Ermanno è dritto accanto al Santo, raccoglie il nido e riscavalcato il parapetto, si siede ansimante e dolorante in salvo sotto le campane. Il nido non era vuoto. Preso in mano vede che dentro c’è un piccolo uccellino, uno solo. Di colore grigio scuro con un sottile becco nero e affusolato. Immagina sia stato abbandonato perché non ancora capace di volare oppure che la madre sia morta da qualche parte a causa di un gatto.

E’ strano come tutto cambi prospettiva alcune volte. Da nero a bianco, da bianco a nero. Quel giorno dopo essere quasi sul punto di lasciarsi andare e morire, Ermanno seduto con la schiena contro il parapetto mette il pennuto subito nel taschino della giacca. Penserà lui a quell’insieme di piume a cui sente battere forte il cuore proprio come batte a lui in questo momento. 

Un abbandonato che aveva bisogno di un abbandonato. Pensa questo mentre si tira su lentamente. Probabilmente si dovrà far vedere da un medico, ma prima vuole pensare a come gestire quel piccolo. Prende un po’ fiato. Mette una mano sul taschino dove sta l’uccellino e si chiede quale Dio possa volere una cosa simile. Se lo immagina nascosto dove nessuno guarda, a vegliare sulle cose a cui nessuno bada. A quelle cose lontane dal corso della storia, quelle cose piccole a cui nessuno presta attenzione. Si immagina questo Dio dentro le crepe delle case abbandonate, dentro alle bottiglie di plastica lasciate nei boschi, seduto vicino a vecchietti, come lui, soli nelle giornate d’autunno al parco, chiuso nelle teche delle biblioteche che nessuno frequenta. Si sente come una pedina in un grande gioco e questo lo rende felice. Ha finalmente ritrovato il suo posto. Ha reso giustizia al Dio-delle-piccole-cose. Sente che gli è accanto e che gli mette una mano sulla spalla. Prima di ritornare ognuno nei propri spazi invisibili alla storia ed al tempo, il Dio-delle-piccole-cose ed il suo sacerdote si concedono un ultimo sguardo tutt’intorno ed insieme si godono qualche momento di meritato riposo.

Tommaso Merati

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