Memorie sulla solitudine di un sorriso – Nicolò Agnolon (dal contest di Scrittura ’25)

Padova, 28 febbraio 2057 

Scelse di prendere un treno, il primo che avrebbe potuto prendere per  raggiungerla. Lei invece era già lì per il concerto di Vasco Brondi, data  zero per Paesaggio dopo la battaglia, ai Magazzini Generali. Si mise la prima camicia disponibile, appena stirata, la coppola  ereditata dal nonno mancato l’anno prima, raccolse le sue poche cose e  corse in direzione della stazione.  

Raggiunse Milano cinque ore più tardi. 

La vide arrivare, avvicinarsi, con gli occhi lei fissava il marciapiede che  divorava a passo spedito, la abbracciò, forse sorrise. Era bella, di una  bellezza fresca, genuina, di una donna sicura di sé.  

Non la incontrava da più di tre mesi e quel momento fu, nonostante  tutto, il più bello che potesse capitargli.  

Si incamminarono, assieme come un tempo, verso i Navigli. Presero un trancio di pizza al secondo take-away della via, poi una birra  artigianale. Fumarono una sigaretta assieme. Lui la finì prima, non so  bene se perché più nervoso o semplicemente perché parlò meno di lei. Contemplandola, gli passarono innanzi gli anni vissuti assieme, veloci  ma definiti in ogni dettaglio. Il primo vero bacio, quello che durò una  notte intera, il fare l’amore al buio, lo scoprire un po’ alla volta il suo  corpo, perfetto, lambire il suo seno. L’emozione di prendere un aereo  per tornare da lei, il perderne un altro, il tremare all’idea di rivederla.  Le conseguenze di un abbraccio, la solitudine di un sorriso.  Capì tante cose. Ne disse solo alcune, mentre lei muoveva il volto, prima  a destra poi a sinistra, incessantemente.  

Tentò di baciarle le labbra leggermente screpolate, quasi a volerle  guarire, anche se le disse che non era vero. Optò per poggiare le labbra  sulla sua fronte, lei abbassò il volto, lui gli occhi. 

Si salutarono, si abbandonarono, di nuovo. 

«Vedi» mi disse «non ho mai saputo cosa provò lei in quell’istante, in  quell’ora di sole notturno dove la clessidra cessò di funzionare.» Poi mi ringraziò, lasciò 10 euro sul bancone, si alzò lasciando la tonica  con ghiaccio ancora mezza piena e si congedò. Feci appena in tempo a  stringergli una spalla, sussurrandogli: «Amico, l’amore, per quanto 

emblema dell’incertezza, è quello che ci fa sopravvivere. Non  abbandonare quel sentiero, se ritieni sia quello degli Dei.» Mi guardò, credo capì il mio riferimento perché rispose: «Dicono che il  cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende.» Abbozzò un sorriso solitario e uscì dalla porta principale. Scomparve e  non se ne seppe più nulla per lungo tempo. 

Lo rividi poi, per caso, molti anni più tardi, in un bar nel centro di  Padova, in Via Marsala. Mi riconobbe, era solo.  

Non chiesi nulla, aspettai che me ne parlasse lui. Era tornato nel  profondo Veneto per una perdita in famiglia.  

«Mi piace, quando posso, tornare in questi luoghi» mi disse «È qui che  la vidi per la prima volta, è qui che iniziò tutto.» 

Versò una lacrima, ma qualcosa mi disse fossero lacrime di gioia. Subito dopo, infatti, avrebbe estratto dal portafoglio una fotografia; me  la mostrò. 

C’erano due persone, in piedi, vicino a una piccola casa fronte mare,  felici; non mi fu difficile capire di chi si trattasse. Finalmente sorrisi  anche io. 

Ripose gelosamente l’immagine laddove era stata fino ad ora custodita,  questa volta finì la sua tonica e mi salutò. Avrebbe preso un aereo di lì  a poco – mi fece sapere – per tornare ad ascoltare il suono delle onde e  assaporare i tramonti sui confini inesistenti del mare, con lei. 

Non l’aveva abbandonato, quel sentiero. 

Corsi subito a raccontarlo alla mia compagna e soprattutto ai nostri figli.