Padova, 28 febbraio 2057
Scelse di prendere un treno, il primo che avrebbe potuto prendere per raggiungerla. Lei invece era già lì per il concerto di Vasco Brondi, data zero per Paesaggio dopo la battaglia, ai Magazzini Generali. Si mise la prima camicia disponibile, appena stirata, la coppola ereditata dal nonno mancato l’anno prima, raccolse le sue poche cose e corse in direzione della stazione.
Raggiunse Milano cinque ore più tardi.
La vide arrivare, avvicinarsi, con gli occhi lei fissava il marciapiede che divorava a passo spedito, la abbracciò, forse sorrise. Era bella, di una bellezza fresca, genuina, di una donna sicura di sé.
Non la incontrava da più di tre mesi e quel momento fu, nonostante tutto, il più bello che potesse capitargli.
Si incamminarono, assieme come un tempo, verso i Navigli. Presero un trancio di pizza al secondo take-away della via, poi una birra artigianale. Fumarono una sigaretta assieme. Lui la finì prima, non so bene se perché più nervoso o semplicemente perché parlò meno di lei. Contemplandola, gli passarono innanzi gli anni vissuti assieme, veloci ma definiti in ogni dettaglio. Il primo vero bacio, quello che durò una notte intera, il fare l’amore al buio, lo scoprire un po’ alla volta il suo corpo, perfetto, lambire il suo seno. L’emozione di prendere un aereo per tornare da lei, il perderne un altro, il tremare all’idea di rivederla. Le conseguenze di un abbraccio, la solitudine di un sorriso. Capì tante cose. Ne disse solo alcune, mentre lei muoveva il volto, prima a destra poi a sinistra, incessantemente.
Tentò di baciarle le labbra leggermente screpolate, quasi a volerle guarire, anche se le disse che non era vero. Optò per poggiare le labbra sulla sua fronte, lei abbassò il volto, lui gli occhi.
Si salutarono, si abbandonarono, di nuovo.
«Vedi» mi disse «non ho mai saputo cosa provò lei in quell’istante, in quell’ora di sole notturno dove la clessidra cessò di funzionare.» Poi mi ringraziò, lasciò 10 euro sul bancone, si alzò lasciando la tonica con ghiaccio ancora mezza piena e si congedò. Feci appena in tempo a stringergli una spalla, sussurrandogli: «Amico, l’amore, per quanto
emblema dell’incertezza, è quello che ci fa sopravvivere. Non abbandonare quel sentiero, se ritieni sia quello degli Dei.» Mi guardò, credo capì il mio riferimento perché rispose: «Dicono che il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende.» Abbozzò un sorriso solitario e uscì dalla porta principale. Scomparve e non se ne seppe più nulla per lungo tempo.
Lo rividi poi, per caso, molti anni più tardi, in un bar nel centro di Padova, in Via Marsala. Mi riconobbe, era solo.
Non chiesi nulla, aspettai che me ne parlasse lui. Era tornato nel profondo Veneto per una perdita in famiglia.
«Mi piace, quando posso, tornare in questi luoghi» mi disse «È qui che la vidi per la prima volta, è qui che iniziò tutto.»
Versò una lacrima, ma qualcosa mi disse fossero lacrime di gioia. Subito dopo, infatti, avrebbe estratto dal portafoglio una fotografia; me la mostrò.
C’erano due persone, in piedi, vicino a una piccola casa fronte mare, felici; non mi fu difficile capire di chi si trattasse. Finalmente sorrisi anche io.
Ripose gelosamente l’immagine laddove era stata fino ad ora custodita, questa volta finì la sua tonica e mi salutò. Avrebbe preso un aereo di lì a poco – mi fece sapere – per tornare ad ascoltare il suono delle onde e assaporare i tramonti sui confini inesistenti del mare, con lei.
Non l’aveva abbandonato, quel sentiero.
Corsi subito a raccontarlo alla mia compagna e soprattutto ai nostri figli.
