Anno 2055. Claudio stava facendo dondolare le sue gambe appoggiate a quel molo.
Il sole stava tramontando all’orizzonte, colorando quelle acque che l’avevano visto crescere e
diventare uomo, le barche di pescatori che tante volte aveva aiutato sulla battigia a riordinare le reti
erano fuori, veleggiavano calme in un mare tiepido, dopo la lunga estate.
La spiaggia era ormai vuota, qualche nonno si attardava con nipoti che, a breve, avrebbero
cominciato la scuola. Anche per lui era quasi l’ora della campanella, l’ultima.
Quell’anno sarebbe suonata la sua ultima campanella d’inizio, ogni giorno sarebbe stato l’ultimo di
quel mese trascorso tra i banchi di scuola, in mezzo ai bambini.
I suoi baffi ruvidi e biancastri venivano stuzzicati dalla salsedine, la vista ormai non era più quella di
un tempo e si perdeva tra le macchie se non sostenuta da quelle magiche lenti che gli avevano
permesso di osservare il mondo.
Anche i suoi abiti raccontavano di lui. Non era un maestro alla moda, i pantaloni color sabbia, di
velluto, la camicia a quadri bianchi e verdone, le bretelle bordeaux e la sua coppola scura.
Gliel’avevano regalato prima di partire per il nord, per cominciare ad insegnare tra i banchi di
scuola…
Insegnare. Lui non l’avrebbe mai detto che sarebbe finito a fare il maestro.
Le sue gambe continuavano a penzolare quando un fischio inconfondibile lo rapì.
“Wind of change”, degli Scorpions lo riportò indietro. Suo padre la fischiettava portandolo a scuola,
erano i tempi della caduta del muro di Berlino, nell’aria si respirava cambiamento. Lui iniziava la
prima elementare.
Loro viaggiavano su quella Fiat Panda blu e la radio passava questa canzone.
Se lo ricordava ancora quel giorno.
Quell’anno.
Il suo primo anno di scuola.
Quando aveva visto per la prima volta le maestre. Quando fermo davanti al cancello pensava a ciò
che avrebbe dovuto affrontare. A quella castagnata fatta con la sua classe, per la prima volta su un
pullman così grande. Allo zucchero filato preso in gita. Al fagiolo che avevano piantato e a lui, che
con i suoi compagni, ogni giorno andava a vedere quanto era cresciuto. Alla canzone degli indiani
Cu-Cu. A quella recita, in cui aveva dovuto fare la parte dello spazzacamino. Alla storia che avevano
raccontato. A quel calendario dell’avvento. Ai suoi compagni, ai litigi e alle risate con loro. Quando
aveva imparato a scrivere in corsivo e a sommare quei numeri che per lui erano sempre stati così
difficili da capire. Ai nuovi amici che aveva incontrato. Alcuni sarebbero rimasti con lui per tutta la
sua vita. A quel magone che gli stringeva la gola quando si era seduto il primo giorno in classe
perché ancora non conosceva nessuno. A come tutto sembrava grande e bello, anche quello che
negli anni a venire sarebbe sembrato ovvio e scontato. A quell’abbraccio, di quel bambino che
sarebbe diventato poi il suo migliore amico e che gli aveva regalato il sorriso nel suo primo giorno di
scuola. Ai libri, che finalmente non nascondevano più segreti ma veri e propri tesori da scoprire. Alle
corse in giardino, a nascondino e allo sparviero che non si era mai capito se le mani dovevano
rimanere unite oppure no. Non gli era chiaro neanche adesso in realtà.
Erano gli anni della meraviglia.
Ed ora, stava per iniziare il suo ultimo anno di scuola.
La canzone era finita da un po’, le barche si erano ritirate.
Era ora di andare.
Claudio prese con sé i suoi ricordi e si avviò verso il futuro.
Verso il suo primo giorno di scuola. Perché per i maestri, si sa, ogni settembre ha il sapore del primo
giorno di scuola.
