Tra strade che sembrano diroccate, pochi abitanti e una strada vuota, torni a Ulassai. È il 1981. Qui ci sei nata, sarda di nascita, a Roma hai attraversato il Liceo Artistico e poi a Venezia l’Accademia delle Belle Arti.
Pensi che sia anche questo cambiare forma alla materia. Dai vita a un intreccio tra chi vive nello stesso luogo e forse non si è mai visto. I bambini e le vedove, i pastori e i contadini. Ognuno mette in pausa quel frammento di giorno per contribuire alla vostra azione collettiva, sporgendosi dalle finestre, uscendo di casa e sedendosi in mezzo alle vie.
La comunità di cui non ti senti più parte, si riunisce per strappare un pezzo di nastro azzurro. Lo annodano alla ringhiera di un cancello, lo tirano fino alla finestra del palazzo di fronte e lì lo legano. Una ragnatela di biografie che si sovrappongono.
Scorre tra le rocce delle montagne e sopra ai tetti delle case. Si muove nel vento. Partecipi anche tu. Tendi il filo e lo passi a chi ti sta affianco. Crei un nodo tra un nastro e l’altro. La fettuccia supera un balcone e finisce su un altro ancora. Porgi un lembo a una donna. Si ritrae. Non vuole rinunciare al suo lavoro nei campi.
Tu, invece, ti leghi alla montagna, diventando parte della tua opera d’arte.
Davanti al monte Gedili un passante ti riconosce: “Maria Lai!”.
Tu non ricordi il suo volto. Rughe che non hanno ancora una traccia definita, occhi che ti guardano fissi. Sai di averlo già visto, non sai figlio di chi sia, ma questo non ti è mai importato. In paese non te lo chiedono più, sanno del suicidio in carcere di tuo zio e di cognomi come il tuo ce ne sono pochi.
“Lai!”, ti ripete il passante. Quasi una nota musicale, nel chiamarti durante l’appello. Gli sorridi e il suo viso acquista le sembianze di una fotografia.
Siete tutti in fila con il grembiule e il colletto che vi rende tutti simili. Quinta B. Ricordi ancora l’ordine alfabetico, ma non ricordi come si chiamasse.
“Sono io, sì!”, gli rispondi.
“Non ti ricordi di me?”.
“Secondo banco davanti alla cattedra”. Sei sicura. L’hai convinto. Forse non è mai stato seduto proprio lì, ma il tuo sguardo deciso l’ha persuaso.
“Hai fatto tutto tu?”, ti chiede, guardando i nastri azzurri appesi per il paese.
“State facendo tutto voi, insieme a me”.
Vuole scattarti una foto. “Posso?”, anche se ha appena premuto il pulsante di scatto. È l’ultimo giorno dell’esposizione collettiva. Il passante ha sviluppato il rullino.
Ti porge quella fotografia: stai sorridendo, poco distanti altri compaesani che tengono in mano la fettuccia azzurra. La conservi.
Venticinque anni dopo, una ragazza entra nel Museo di Arte Contemporanea stazione dell’arte a Cardedu. Chiede di te. È arrivata fino a lì per incontrarti. Vuole sapere ogni cosa della tua opera “Legarsi alla montagna”.
Mostrandole la fotografia che ti ha scattato il passante, le racconti la leggenda che ti ha ispirata. Le parli della grotta degli antichi, delle pietre che si sono incastonate durante la frana di una parte della montagna, nella zona più alta di Ulassai. Non sei sicura di quale versione raccontarle. Inizi con la storia delle quattro bambine, delle tre che sono morte e di quella che si è salvata uscendo dalle macerie con un nastro azzurro. Lo stesso che hai appeso per tutto il paese. Le racconti che si dice che sia una storia vera, ma che non sei sicura neanche tu se sia realmente successa. Continui dicendole che esiste un’altra versione della leggenda.
Le fai immaginare la bambina che ha appena portato da mangiare ai pastori e che poi si rifugia con loro nella grotta.
Le racconti del nastro azzurro che attira quella bambina fuori dalla grotta, nel mezzo di una tempesta e della frana che nel frattempo chiude l’unica via d’uscita ai pastori. Insisti dicendo che la bambina si è salvata.

Federica Mangano