Cartoni animati: di mondi altri che scardinano la nostra adultità

“Big Fish & Begonia”, Liang Xuan, Chun Zhang (2016)

I cartoni animati. C’è chi storce il naso quando chiedo di andarne a vedere uno insieme. Mi è capitato di essere presa in giro, amichevolmente si intenda, ma comunque mi è successo che la mia opinione venisse squalificata quando si trattava di concedersi quella serata in compagnia di coloratissimi animali di fantasia o surreali esseri umani catapultati in un universo immaginario.

E io adoro i cartoni animati. Penso sia dovuto al fatto che sono sempre stata una persona estremamente autoriflessiva, un’osservatrice attenta dei fenomeni della realtà, delle rappresentazioni del reale, dei riverberi del quotidiano sulla vita delle persone che mi circondano. L’essere sociologa non aiuta, spingendomi a dover vedere un senso ovunque, un disegno di insieme più grande, una cornice di significato nella quale costringere il mondo fuori.

“Kiki – Consegne a domicilio”, Hayao Miyazaki (1989)

Ecco, i cartoni annichiliscono questa mia spasmodica ricerca di senso nella mia razionalità spesso convulsa. Mi sollevano dalla responsabilità di sentirmi dotata di pensiero raziocinante in ogni scelta, conversazione, episodio eteroriferito della giornata. E mi costringo a stare. Sono una porta su un universo di senso altro, che non si confà alle dinamiche di questo mondo, non vi si asserve, ma anzi ne pensa di nuove, ne trasla il senso in nonsenso, scombussolando tutti i miei dogmi.

Nel mio andare quotidiano, quando mi concedo un cartone animato, è perché ho voglia di evasione, di sentirmi leggera, sollevata da terra e scalpitante nell’iperuranio. Ho voglia della me bambina. Della me curiosa e irriverente; della me incredula di fronte alle bellezze del mondo e commossa dalle sue emanazioni; della me pura, senza riflessioni indotte dall’età, semplicemente me stessa, a piedi nudi sull’erba dei miei pensieri.

“Your Name”, Makoto Shinkai (2017)

E i cartoni animati riescono a fare questo, a trasportarmi con delicata cura in una dimensione altra, per i colori e i paesaggi che dipingono; per le storie che raccontano e per le ambientazioni dove queste prendono forma. Verdi prati, abissi tutt’altro che spaventosi, ma anzi ammantati di una magia rara; cieli stellati con gli astri che sembrano appiccichini su carta velina. I cibi stravaganti, la compostezza del mangiare, l’irriverenza nel farlo che caratterizza certi personaggi, ma sempre senza disgusto; le frutte e le verdure immaginifiche; i piatti di tradizioni lontane che chiamano l’attenzione e risvegliano la mia voglia di andare a conoscere, toccare con mano, ciò che ancora non ho avuto occasione di vedere con i miei occhi nel mondo questo.

E in tutto ciò, che non mi si dica che i cartoni animati sono prodotti di serie B rispetto alla filmografia “degli adulti”. Hanno la capacità di trattare temi pesanti come macigni e faticosi anche ai più coraggiosi con strepitosa semplicità: non superficialità, ma proprio semplicità, nella crudità con cui pongono certe questioni e nella mancanza di sovrastrutture a leggerne il senso. Le relazioni sono autentiche e vere, i personaggi si parlano senza sottendere nulla, si guardano e quello sguardo viene spiegato. Si dice tutto e non si tiene dentro nulla. Senza paura.

“Porco Rosso”, Hayao Miyazaki (2010)

Questa breve riflessione per spronare a rivalutare i cartoni, anche per chi di voi non li avesse mai avuti in simpatia. Sono uno strumento immensamente prezioso per leggere ciò che ci circonda con il candore di una bambina. E, non so voi, ma io in questa società che di sole sovrastrutture ormai si compone, ne ho immensamente bisogno…

Gaia Bugamelli

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