In Israele, su una collina a mezz’ora di macchina tra Tel Aviv e Gerusalemme, sorge una comunità dove arabi ed ebrei, con cittadinanza israeliana, convivono insieme nel rispetto reciproco.
Tutto nasce negli anni 70, quando Bruno Hussar, un uomo con quattro identità, come lui stesso si definiva, fondò il villaggio Neve Shalom Wahat al-Salam. Bruno, infatti, era nato ebreo, ma ha vissuto per lunghi periodi in Egitto, dove ha potuto conoscere il mondo arabo. Si è poi convertito al cristianesimo ed è diventato un frate domenicano.
Qualche giorno fa abbiamo conosciuto Giulia Ceccutti, dell’Associazione italiana nata nel 1991 a Milano, una delle realtà che, insieme ad altre nel mondo, supporta il villaggio israelo-palestinese e sensibilizza le persone italiane sull’importanza del loro lavoro e del dialogo tra i popoli. Con le sue parole ci ha guidato alla scoperta di questa realtà dal duplice nome: Neve Shalom Wahat al-Salam, due parole, di due lingue diverse, rispettivamente ebraiche e arabe, che significano oasi di pace.
Qual è la missione principale dell’Associazione Italiana e cos’è il villaggio?
L’associazione italiana, come le altre partnership fuori da Israele, sostiene a distanza il villaggio, che oggi ospita ottanta famiglie (metà palestinesi e metà ebree), oltre ai suoi programmi educativi. Un altro dei nostri obbiettivi è far conoscere questa realtà in Italia, anche e nonostante la guerra, in modo tale da trasmettere l’importanza che assume questo luogo da più cinquant’anni, dove vivono in modo giusto e in pace sia ebrei che palestinesi.


Bambine/i ebrei e palestinesi della scuola primaria del villaggio
In che modo il villaggio contribuisce alla convivenza tra queste comunità? Cioè, quali sono i punti di contatto che tengono insieme una realtà così complessa?
Va ricordato che circa il 20% della popolazione di Israele è araba. Sono discendenti delle famiglie rimaste nel Paese dopo il 1948, anno di nascita dello Stato d’Israele. Alcuni dei discendenti di queste famiglie, oggi, vivono nel villaggio. La rappresentanza è importante: esistono 80 famiglie (metà ebree e metà palestinesi), ovvero 300 abitanti e la parità numerica è presente sia nelle istituzioni educative sia nei comitati che organizzano la vita pubblica. Le attività sono molto apprezzate e il villaggio intende espandersi, grazie alla richiesta di alcune famiglie che intendono abitare lì.
Nel tempo sono nate nuove strutture: l’asilo, una scuola materna e una elementare. Mentre in Israele ci sono separazioni nette, nel villaggio, la scuola è bilingue e binazionale, con due insegnanti (una ebrea e una araba) che tengono le lezioni insieme, così come ci sono metà bambini israeliani e metà palestinesi. Anche il fatto di avere due lingue da imparare è importante: in controtendenza con quanto accade nel resto del paese, dove sono gli arabi a dover imparare la lingua per comunicare, qui si dà valore alla cultura di entrambe.
E’ stata creata, inoltre, una Scuola per la pace, che organizza corsi (anche nelle università israeliane) e aperti all’esterno; utilizza una metodologia intergruppo per mettere gli uni di fronte agli altri per dialogare, quindi promuove gli strumenti della non-violenza, sessioni dialogo e di facilitazione. Si impara a gestire il conflitto, cioè a decostruire il ruolo di ognuno al suo interno e all’interno della società, ma si lavora anche sul gruppo.
Con queste sessioni si vuole far emergere gli elementi positivi che ognuno/a può portare all’interno degli spazi che abita, come sul luogo di lavoro, al fine di favorire le relazioni.
Nel corso della guerra, in questi mesi, ha offerto anche consulenze nei luoghi di lavoro in cui sono presenti i due gruppi- come negli ospedali- ma ha formato anche i leader nelle città miste [in Israele], quindi giovani, politici e attivisti/e, giornaliste/i, figure professionali, ONG e gruppi di donne.
L’articolo continua la prossima settimana!
Andrea Antoniazzi e Francesca Cesari
Credit foto: Courtesy of Giulia Ceccutti- Associazione italiana Neve Shalom Wahat al-Salam.