Quando Aurora mi attende sull’uscio della porta, un abbraccio caloroso, le dico sorridendo che quel rosso le sta bene. Lei mi ringrazia e confessa che è il suo colore preferito e che quel maglione vecchio trent’anni lo testimonia. Tengo per me il pensiero che il rosso le risalta il colorito candido interrotto da un fard accennato ma elegante. Che si sposa bene con i capelli cotonati di un castano scuro che risplende.
La casa di Aurora sono bambole allineate con ordine, la televisione messa su Rai Uno, tovaglie ricamate all’uncinetto, stanze schermate da porte chiuse, inutilizzate, ma immacolate, pulite. Sono un calore egualmente distribuito nelle stanze abitate e in quelle che non lo sono, quelle il cui uso non è mai chiaro a nessuno.
Aurora sono anni che si piega, che si inclina, che solleva, che avvolge, che scruta, misura ad occhio e fa i calcoli in fretta. Lo fa anche con me, con questi jeans che strisciano a terra, con dei pantaloni che vanno allargati all’altezza della vita. Lo fa con una cura e un metodo riconosciuti da tutte grazie a un passaparola ininterrotto. Aurora, instancabile, lavora, e qualche mio meccanismo vitale, forse più di uno, dentro di me si stringe, si irrigidisce, si contrae, piange di rabbia, anche quando le clienti attuano delle strategie meschine pur di non pagarle quanto corrisposto, perché se non si hanno sette euro cinque vanno bene lo stesso.
Poi Aurora si alza, io ho a stento il tempo di riprendermi dopo questo abuso di potere narrato con una rabbia che non può neanche essere definita tale, forse più una rassegnazione insita al mestiere, una constatazione, una frase come tante, ecco si, una frase di cortesia, che Aurora già mi osserva sorridente e con la sua voce squillante mi invita a rimettermi i miei pantaloni, mi guida verso la cucina, un bicchiere di te, d’acqua fredda o temperatura ambiente?, e mi confida che queste cinque camicie che deve sistemare sono un lavoraccio che richiedono una precisione meticolosa, che sono state comprate solo per la marca e allora tanto valeva prenderle della misura giusta non di marca se poi andava a finire così. No? Giusto? Giusto.
Aurora mi confida, perché sono io l’ingenua che lo chiede, che è stanca di fare la sarta. Che le sarebbe piaciuto di più lavorare negli ospedali. I suoi occhi allora si allargano prima del suo sorriso. E le sue labbra si schiudono iniziando a raccontare della sua inconsapevole rivoluzione negli anni in Germania. Aurora è stata un’antesignana dell’autonomia femminista. Arrivata per prendersi cura del fratello lavoratore, in una retorica che stabilisce chiaramente chi sia addetto a curare chi, Aurora inizia anche a lavorare di nascosto per garantirsi una sua libertà. Non lo può sapere nessuno che una donna ha deciso di recarsi in fabbrica. Aurora mi racconta allora degli incastri per rientrare a casa prima che il fratello potesse rendersi conto della sua colpevole assenza. La storia di Aurora è quella poi di un’immigrazione di ritorno una volta sposato il fratello, delle richieste di lavoro in una sartoria nel nord Italia rifiutate perché non si poteva neanche pensare che una donna si spostasse per la sua di autonomia. Allora Aurora ritorna al quartiere dove è nata, ed è da qui che mi parla di una religione che lascia spazio anche a chi non crede, dei suoi vicini e dei nipoti che accompagnavano con passo balzante i nonni. Si concentra su di loro perché forse della Germania non può parlarmi con spensieratezza. A me non suggerisce di rimanere qua, non mi raccomanda nulla se non di trovare un equilibrio. Non mi impone come farlo.
Forse ognuna di noi, leggendo questo breve ritratto, ha ritrovato in Aurora un ingiusto destino che accomuna noi donne: quello di non potere muovere i passi fuori dai luoghi in cui hanno relegato il lavoro di cura, di non potere allontanarci dai ruoli in cui ci hanno confinato. Ma la storia di Aurora, dal suo punto di vista, non è questa. Aurora non si è forse resa conto di quanto abbia lottato contro le imposizioni di questa cultura. Ha continuato a lavorare con una dignità che mi lascia impietrita. Ed è inscritta all’interno di quell’albo infinito di chi in un luogo piccolo ci è nato, ci è cresciuto, vi si è allontanato per un periodo che per quanto determinante sembra sempre essere una parentesi trascurabile, ma poi vi è ritornato. Forse con amarezza, forse con gioia. Questo non lo so. Lo chiederò. Nel frattempo so solo che mentre Aurora parla, io rimango qui, esterrefatta, a chiedermi se abbia capito quanto potente la sua storia sia. Quanto sia ritornata ma anche quanto si sia espansa altrove.
Elsa Rizzo