Antonia e la raccolta di pomodori senza regole (né cura)

Sono le quattro. Oggi non è come gli altri giorni. Come sempre, però, i tuoi occhi non hanno neanche il tempo di schiudersi completamente, che i tuoi piedi sono già per terra. Le tue mani ad afferrare la tuta da lavoro. È gialla e sdrucita. Ma non importa perché i colori assumono i significati che noi diamo loro. E poi, siete rimaste d’accordo che la indosserete. E che però, dovremo scegliere anche un oggetto rosso. Curioso, no?

Meccanicamente sei già in bagno. La faccia te la lavi con ferocia. Quasi cercassi di fare dimenticare ai tuoi occhi quanto visto due giorni prima. Una lavanda visiva. Dopo, ti metti il rossetto color ciliegia. Quello che avevi comprato a Sofia nel piccolo bazar dai rossetti al retrogusto di rosa. Sorridi con amarezza. Anche l’ultima volta che lo indossasti le labbra si erano screpolate per le troppe lacrime amare che le avevano annaffiate.

Non passa un filo d’aria. Tutto è ancora avvolto nel buio. Tu già sai che tra poche ore farà un caldo bestia e che questo è il motivo per cui bisogna iniziare a lavorare prima che sorga il sole. Sono anni che lo sai. Lo sapevi anche ieri. Lo sa la tua pelle: lo ha registrato e lo ha tradotto in minuscole macchie scure dovute al sole e al pulviscolo. Lentiggini di fatica. Lo sanno anche i tuoi occhi che negli anni si sono schiariti ma continuano a bruciare di rabbia.

Quest’estate non ha precedenti. Già alle dieci il sole è così martellante che ogni giorno è un terno al lotto. Tu lo sapevi. Lo sapeva quel criminale che vi tiene sotto scacco senza protezioni in uno stato fantasma. Lo sanno le altre. Chi è venuta prima di te e chi ti ha instradato ammonendoti che dovevi dimenticare “una cura reciproca”. Perché la raccolta dei pomodori di regole non ne ha. E l’unica cura che devi avere è quella di ricordarti di non svenire. Ma questo Antonia non lo sapeva. Perché Antonia era arrivata soltanto il giorno prima. Con lei, la giornata più calda degli ultimi venti anni.

Ora collego tutti i pezzi. È da un po’ che Anna, la figlia della vicina, mi assilla con questa storia della crisi climatica. Arde di rabbia. Io inizialmente sminuivo e sbuffavo perché al caldo, in vita mia, ormai ho fatto il callo. Ma quando martedì Antonia è svenuta davanti ai miei, ai nostri occhi – e non importa i massaggi cardiaci, non importa l’acqua, non importa le chiamate tempestive, le urla disumane che hanno straziato il silenzio, e non si è più rialzata, il suo cuore non ha retto – beh il mio primo pensiero è andato ad Anna, a quella giovane infervorata. A quelle frasi taglienti come lame. Poi siamo state accecate dalla rabbia e da un dolore dilaniante. E da quel momento le mie lacrime non hanno mai smesso di scorrere. Pioveva tutta l’acqua che manca in questa siccità mortale.

Le mie guance adesso sanno di sale. Anche se le ho strofinate con forza, sanno ancora di sale. Lo stesso che poi viene aggiunto alle passate prodotte con i pomodori che raccogliamo noi. Ogni giorno. Prima che faccia caldo. Forse in quella cassetta raccolta da Antonia non ci sarà bisogno di aggiungere il sale. Perché ci abbiamo pensato noi. Con le nostre lacrime.

Il lavoro l’abbiamo interrotto. Solo per un giorno. Il tempo di smuovere l’opinione pubblica, galleggiare per un po’ tra le prime pagine dei giornali e poi ripiombare nell’oblio. Perché poi noi questo lavoro continuiamo a svolgerlo, ogni giorno, senza tutela, senza cura.

Quando abbiamo organizzato il funerale, il rosso l’abbiamo scelto perché volevamo denunciare. Volevamo un unico colore. Il colore del sangue che Antonia non ha versato. Quello che scorre da questo succo di pomodoro.

Torno a casa. C’è mio marito. Di solito il giovedì sera prepara la pasta al sugo. Gli basta un’occhiata per capire che oggi mangeremo in bianco. Credo che non mangerò più pasta al pomodoro. O che almeno non lo farò fin quando qualcuno non si prenderà cura anche di noi. Situate all’ultimo gradino di questo inferno terrestre.

Elsa Rizzo

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