Ramadan

È l’ultimo giorno del Ramadan. Il giorno prima Cristina e Antonio hanno pattuito cosa verrà cucinato. Io, alla fine, mi ero tirata indietro, e il mio posto l’aveva preso Giulia. Era stato S. a intrigarci perché “When you do Ramadan, all Ramadan”. 

Quel mattino, pur non avendolo messo in conto, mi svegliai con la stessa esaltazione di quando a diciott’anni devi partire per la gita. Solo che tutto taceva e mi chiesi se i miei compagni si fossero dimenticati degli accordi presi. In punta di piedi raggiunsi la sala da pranzo. Erano le 04:37. Tra poco il sole sarebbe sorto e loro non avrebbero potuto mangiare. Il piano sarebbe saltato. Non avevo neanche finito di elaborare questo pensiero che Antonio spuntò alle mie spalle. “Mangia con noi” disse con un sorriso stampato sul volto. “Ma no, voi avevate programmato per tre, non ne resterebbe abbastanza per voi…” cercai di rifiutare. “Elsa dai che tra poco è giorno” aggiunse Giulia, che nel frattempo, ancora decisamente troppo assonnata, si era tirata giù dal letto. Cristina a capotavola era contenta: disse che sapeva mi sarei alzata. Eravamo in ritardo con i tempi. Consumammo in fretta un pasto a base di riso con verdure, pollo con rapa rossa e una macedonia. Ma soprattutto acqua. Tantissima acqua. Sapevamo che durante il giorno, pur non essendo nel mezzo di una torrida estate, sarebbe stata la mancanza d’acqua la vera sfida. Sono le 05:14. Il sole è sorto. Il tempo scaduto. Noi torniamo a letto. Sappiamo che al risveglio saranno più o meno dodici le ore a separarci dall’Iftar, il momento della rottura del digiuno. 

Sono quasi le 20. Dalle 16 M. ci guarda con apprensione. Ha solo 17 anni ma il suo sguardo è quello di un adulto. Ci sorride e alza il pollice. “Is everything ok?” si assicura. Lo chiede diverse volte in un’ora. Vuole accertarsi che il nostro corpo non risenta del contraccolpo. Loro, pur essendo più piccoli di noi, sono abituati. Sanno quali sono le strategie per ingannare il tempo, la fame, la sete. Contro intuitivamente non è non far nulla. La noia ti assalterebbe. Ti farebbe ricordare che il tuo corpo è un serbatoio e che gli serve benzina. Tu invece tieniti impegnato. Distraiti. Non sforzarti eccessivamente. Non distenderti troppo. R. ci dice che se ti gira la testa devi sederti e aspettare che passi. Fare dei respiri profondi. Anche lui ci guarda con una tenerezza che non mi sarei mai aspettata nei nostri confronti. Sono sull’attenti perché orgogliosi. Orgogliosi che per un giorno abbiamo cercato di immedesimarci in questo grande rituale che è si privazione fisica, ma allo stesso tempo un’immersione collettiva. Un senso di purificazione che ti attende alla fine del giorno quando ti siedi a tavola con chi, come te, sta si sta seguendo il Ramadan. 

Ancora oggi mi chiedo se questa scelta potrebbe essere vista come una pratica di appropriazione culturale, o se potremmo essere degli eretici agli occhi di chi il Ramadan lo vive per il tempo pattuito, senza sgarri, con gli annessi crampi iniziali, i giramenti di testa, le parole che si seccano in gola. Senza inganni. Ho visto persone seguirlo e l’effetto del tempo che passava. La stanchezza che diventava cronica. Le guance che un poco si scavavano. Ma vedevo anche un senso di collettività rigenerato. Mani che si appoggiano ad altre spalle. Divani su cui ci si siede insieme. Pasti condivisi dopo il tramonto. E la festa che ne conseguiva. 

Quando quel giorno tramontò il sole io presi una sedia. Una bottiglia d’acqua da due litri e un bicchiere. Mi sedetti accanto O. vicino il marciapiede. Seguì le sue istruzioni alla lettera. Non bere un lungo sorso di fila. Farne uno breve. Fermarsi. Respirare. Ripetere la pratica per tre volte di fila. Solo allora bere un sorso più lungo. Mangiare un dattero. Una fonte immediata di zuccheri. Respirare. Stringere la mano ad O. che fino alla fine ha sorriso dicendomi che se sgarravo e bevevo dell’acqua prima andava anche bene. Era la prima volta che lo facevo e sarebbe stato comprensibile. Ma alla fine ce la feci. Forse proprio per il sostegno di R., O. e M. Il fuoco che bruciava nei loro occhi. La gioia di condividere una parte fondamentale della loro identità. Le nostre strette di mano.

Elsa Rizzo

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