Mario ne percepiva ancora la fatica. Lo stridere dei falchi. Il canto di
Klaus Meine nelle orecchie. L’afa alitante nei polmoni.
Ne rivedeva il sentiero breccioso e sconnesso, le pietre glabre e
incastonate tra sassi col dono di verdi ciuffi di lanugine. La pendenza
del percorso. I mucchi granulosi di terra ai lati. E il vecchio.
Qualche minuto prima, avanti a tutti, il papà Gonzo, domator di
quattrini, si vantava della propria agilità, e sorridente indicava colli e
montagne, grondante di liquidi dalla luna in giù.
In seconda posizione la mamma Nina, dal passo balbettante,
spappolava il marito con lo sguardo, non la smetteva più, e simulava
stretto in mano un trasparente bastone da passeggio.
E non in terza, non in quarta, ma ancora più dietro, il fratellino
Lorenzo, piè assai lento, nascosto tra mollicci corpi senza volto,
secerneva la sua densa bava incolore.
Di norma avrebbero tutti voluto dormire. Su un letto soffice, su un
cuscino solo. Sulle rocce, anche.
Dopo più di sette ore, il passo stava assumendo tratti che lo
accomunavano all’eternità. Persino Gonzo, una mano sulla fronte, si
fermava spesso per controllare quanto cavolo mancasse al traguardo.
Dai suoi modi stava via via gocciolando l’esuberanza che lo rendeva
unico.
Esisteva o no una fine? Forse sì. O forse no.
La speranza, proprio lei, si stava riducendo ad un ghiacciolo alla menta
trasudante sconforto.
In questo insieme di sogni e odori, Mario ricordava di essere arrivato
all’ennesimo ritornello di Wind of change quando comparve. Si alzò un
forte vento, talmente impetuoso, che ne sfiorò con le dita la superficie
come fatta di ciottolo levigato. Una serie di stak spezzarono la melodia
degli Scorpions. Una secchiata intangibile di birra invecchiata inzuppò
il cammino.
E apparve. Il vecchio.
Dal nulla, si può dire. Ritto come un arbusto, se ne stava fermo in cima
alla salita, più calvo di Gonzo, e con un paio di orecchie identiche a
quelle di Dumbo. Sorrideva. I denti tesserine spigolose.
“Come siete lenti!”, esclamò.
Gli occhi strizzati da palpebre feroci. Reggeva in mano un cartone. Un
po’ più grande di un foglio da risma. C’era disegnato qualcosa.
“Oh, vi piace?”, fece indicandolo.
Nessuno rispose. Gonzo, intanto si era seduto e Nina aveva smesso di
fissarlo.
“Certo che voi delle ultime generazioni vi stancate in un niente, eh!”
C’era una foresta sul cartone. Un percorso di terra battuta che separava
un gruppo di alberi da un altro. Un pallido sole in alto a sinistra.
“L’anno scorso ho girato sui sentieri che vedete qui dipinti. È stato,
come dire… solenne. Sì, solenne! E sono arrivato primo. Primo!”
Le cicale frinivano. Non cantavano. Lorenzo, immobile, era diventato
una bollicina della sua schiuma.
“Sapete, ho battuto i concorrenti in velocità!”
Quando parlava ondeggiava il corpo come fosse un mercantile
sovraccarico. E non smetteva di sorridere. Non un secondo. Finchè non
sembrò tornare nel mondo dei vivi. Quasi si fosse reso conto di un
problema percepibile ai suoi soli sensi. Il sorriso si ritirò tra i tagli sulle
labbra. Gli occhi divennero quelli di una statua.
“Avete paura di me?”
Nessuno aprì bocca.
“No, non ce l’avete, so che è così”.
Silenzio.
“Voi temete di non avere le mie energie.”
Ci fu un deglutire da troll delle colline.
“Appunto. Ecco il taglia forbici nella vostra mela.”
