La Chimera

Agli archeologi, custodi di ogni fine”; questa è la dedica che la regista toscana Alice Rohrwacher inserisce nella sua ultima pellicola “La chimera”, riproponendo il cinema come lente sempre inedita per indagare la realtà.

Siamo nella Tuscia degli anni ’80. La Rohrwacher racconta gli anni della “grande razzia” attraverso la figura di un giovane archeologo inglese, Arthur (Josh O’Connor), che si riunisce al gruppo di tombaroli con cui trafuga reperti etruschi per guadagnarsi da vivere. I personaggi che ruotano attorno ad Arthur in questa fiaba tragicomica,  non sono delineati come buoni o cattivi, non subiscono il giudizio della regista, che al contrario empatizza con loro, in quanto destinati a inseguire vanamente la propria chimera: il gruppo di tombaroli brama ricchezza e fortuna, cercandole febbrilmente nel sottosuolo, la schiava Italia (Carol Duarte) lotta per un futuro stabile, Flora (Isabella Rossellini) aspetta il ritorno della figlia defunta Beniamina, Euridice di un Arthur Orfeo, costretto a ricercare l’amata passando da tomba in tomba. I perni della storia sono figure ai margini, farsesche, finemente caricaturali, quasi a ricalcare i personaggi che abitano il mondo di Amarcord di Fellini. D’altronde il realismo magico di cui è pregna la pellicola non può che omaggiare il maestro.

Il fenomeno dei tombaroli

La Storia giudica i tombaroli come gruppi di fuorilegge, disonesti. La storia raccontata dalla Rohrwacher non li condanna altrettanto aspramente. Infatti, assegnando loro l’epiteto di poverini, li disegna figli di un mondo profanato, quello del dopo guerra, in cui più nulla è sacro, in cui si costruiscono centrali a carbone sui santuari, in cui scarti di una società sempre più consumista riempiono i boschi. L’orrore della guerra ha portato via con sé il rispetto per l’invisibile, per le anime, lasciando il posto a una logica materialistica in cui tutti gli oggetti sono merce accessibile. Emblematica è la frase di Italia: «Ci sono cose che non sono fatte per gli occhi umani». 

Cambiare punto di vista

È il titolo stesso a dare allo spettatore la chiave di lettura del film. “Chimera” ha infatti un duplice significato; da un lato si riferisce a un ideale, un’utopia, dall’altro evoca l’immagine di una creatura mitologica, ibrido di animali diversi. Quest’ambivalenza è il filo rosso che attraversa la pellicola, costruita su contrasti: visibile e invisibile, sacro e profano, materia drammatica ma linguaggio leggero.  L’invito a cambiare punto di vista è proposto ponendo al centro della narrazione uno straniero, un uomo solo e fragile. Fruiamo della storia tramite il suo sguardo, ci immedesimiamo nel suo essere estraneo, finiamo anche noi sottosopra come lui, accompagnati dai capovolgimenti di macchina.

Come la creatura mitologica, il film è commistione delle molteplici eredità del cinema; oscilla tra riferimenti al primo cinema muto e al neorealismo italiano, con un continuo alternarsi di formato di pellicola, 35 mm, super 16 mm e 16mm.

 “Cambiano le prospettive al mondo, voli imprevedibili ed ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometria esistenziale” canta Battiato, in Gli uccelli, in chiusura del film.

Emanuela Castaldo

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