Il primo anno di università mi trasferii per studiare scienze politiche e diritti umani a Padova, unica facoltà in tutta Italia a prevedere tale configurazione. L’unica, almeno al tempo, che avrebbe deciso di focalizzarsi su una materia oltremodo bistrattata, che solo degli incalliti idealisti come noi avrebbero potuto ritenere una merce non negoziabile. Parlo adesso del noi ma all’inizio, saranno stati tre giorni eh, il mio impatto con l’università fu tutt’altro che accogliente.
Senza tirare in ballo melodrammatismi triti e ritriti, forse però ancora impastata di pregiudizi campanilisti su come il mondo percepisse noi giunti da lontano Sud, il primo giorno di università mi sedetti in un posto assolutamente casuale. Non era la prima volta che mi trovassi da sola in un ambiente sconosciuto, anzi, credo di essermi sentita sempre particolarmente a mio agio a non dover rendere conto dei miei spostamenti, però non sono mica una misantropa, adoro gli esseri umani, e io, diciannove anni appena, un accento che scoprì poco dopo essere forte e immediatamente riconoscibile, sedevo felice ed emozionata alla sola idea di conoscere le persone che sarebbero state non solo semplici colleghi, ma compagni di un’avventura radicale.

Eccomi, se riuscite a focalizzarmi, in mezzo a un’aula gremita con trecento persone, potrete anche visualizzare la scena che sto per narrarvi. Una fila davanti a me, due ragazzi di spalle, uno decisamente più navigato dell’altro, chissà questo grande che esperienze poteva già vantare allora, scrutano l’aula dall’alto, due esaminatori di una commissione d’esame spietata. Chissà quanto saranno sembrate innocenti alle loro orecchie le parole del maestro soprammenzionato: «Vecchio, ora spunteranno un sacco di terroni». L’altro non potè non assentire. Ecco, mi vedete? Io sono quella tramortita esattamente dietro in linea d’area a questi due fenomeni. Ammetto di essere stata poche volte zitta nella mia vita quando qualcosa proprio non mi calava. Però quella volta proprio non riuscii. Le parole mi morirono in gola. Cosa avrei potuto dire? Fingere un marcato accento veneto, inserirmi di soppiatto, e concordare su quanto a rischio fosse la nostra pura essenza padana? Mi avrebbero sgamata al primo “vecchio” pronunciato (maledette vocali aperte!). Arringare a favore del mio popolo e rischiare di inimicarmi altri leghisti, altre possibili carogne? Capisco l’indole dedita allo scontro verbale, però mi sembrava sinceramente precoce giocarmi già dopo mezz’ora la possibilità di procedere per gradi. Radicale sì, ma a diciannove anni, in un contesto diverso, vuoi anche soppesare come muoverti.

Sta di fatto che in questo turbinio mentale, decisi che per stavolta non avrei detto nulla. Avrei adottato la filosofia dell’opossum, anticipando quella che sarebbe diventata la strategia preferita del Pd. Vorrei rassicurarvi sul fatto che poi, in tutte le altre volte in cui mi sono sentita domandare se a casa avessi le autostrade, o possedessi il porto d’armi, rispondevo in maniera intermittente, soppesando le parole dell’accusatore, ora rimanendo sbalordita circa la mancanza di conoscenza di un territorio che ricordiamo essere italiano, ora rassicurando l’interlocutore che sì, certo, tutti in Sicilia possiedono il porto d’armi.
Resta il fatto che quel giorno non mi stordì tanto l’idea che una persona potesse avere dei pregiudizi circa noi provenienti dal sud, gli stereotipi sono un tema troppo grande per questo breve racconto, ma che questa persona avesse scelto di studiare diritti umani.

Vi chiederete se quel giorno segnò in maniera irreparabile le mie relazioni all’interno dell’università: no, assolutamente no. Fu una doccia fredda, certo. Ma un lieto fine c’è. All’interno delle aule dove studiavo in maniera appassionata, quella fu una delle ultime volte in cui sentii commenti sulle persone provenienti dal Sud. La maggior parte delle persone, scoprii nel giro di poco, battagliavano per i diritti umani e mi somigliavano a discapito delle distanze geografiche. E questo li rendeva assolutamente alieni a pregiudizi razzisti di qualsiasi natura.
Elsa Rizzo