Arancione

– Scegli un colore che ti piace e descrivilo -.

– Non capisco a cosa possa servirmi -.

– Immagino, ma non sempre puoi iniziare qualcosa con la pretesa di averla già compresa, anzi, nove su dieci la incominci e poi dopo tempo ti arriva l’illuminazione -.

– Mi fa paura non riuscire a leggere le cose che faccio -.

– Per questo ti ho chiesto di partire da un colore. Distogli l’attenzione dalla grandezza cosmica di ciò che ti circonda. Soffermati su un dettaglio in apparenza inutile -.

– Puoi ripetermi cosa devo fare, per favore?-

– Scegli un colore che ti piace e descrivilo -.

– Devo pensarci -.

– Tutto il tempo che ti serve -.

«Per un errore di battitura, il contratto d’affitto era diventato d’affetto. Allora ho immaginato che tutti, in fondo, dovremmo avere un contratto d’affetto con qualcuno: la postina il vicino il custode il salumiere la badante. Sì, insomma mettere per iscritto, di comune accordo, che quando si è soli, ci si può chiamare a vicenda, fare due parole e poi incontrarsi, sorvolare su tutto il tempo sprecato e alla fine indossare la circonferenza di un abbraccio».

Piergiorgio Viti

– Direi l’arancione. Mi ricorda un’esperienza molto bella che ho vissuto anni fa. Una casa, degli sconosciuti, una famiglia. Un incontro casuale che però, forse forse, tanto casuale non era. Tutti così diversi: se ci fossimo incontrati nelle nostre città, probabilmente, non ci saremmo mai rivolti la parola. Eppure, ci siamo incontrati -.

– Perché l’arancione?-

– Mi ricorda il colore della città in cui ci siamo conosciuti. Le case erano una diversa dall’altra, colorate. Le strade pullulavano di aranci, dono di un vecchio imperatore. Ovunque ti girassi, c’erano pappagalli verdi ad accoglierti con il loro canto gracchiante. Il sole riscaldava sin dal primo mattino. Nonostante fosse gennaio e noi nordici fossimo abituati alla neve, le giornate iniziavano con una luce primaverile indimenticabile. E poi noi: ogni volta che ci vedevamo, ci abbracciavamo forte, scambiandoci tutto l’amore di cui eravamo capaci.

Non ricordo come siamo diventati quello che poi siamo rimasti, una famiglia, una casa.

È stata la prima volta nella mia vita in cui ho vissuto lasciando spalancata la porta di casa, cosicché chiunque di noi volesse entrare per un saluto, un caffè, una chiacchiera, trovava tutto aperto pronto ad accoglierlo.

Vivevamo in quindici in un palazzo, divisi su tre piani diversi, più altri amici adottati da altri quartieri. Ci muovevamo in blocco: prendevi uno, ti accollavi tutti.

Si vedeva da come ci guardavamo quanto fosse importante quel rapporto. Ci stringevamo in abbracci forti, a volte di tristezza, a volte di divertimento. Spesso sembravamo un gruppo di pensionati: spaparanzati sul divano a fare gossip, bevendo una tisana, o a parlare di massimi sistemi, di fronte ad un fondamentale caffè Lavazza, impossibile da trovare in città.

Abbiamo fatto cene gourmet con le melanzane fritte arrivate direttamente da Pompei. Abbiamo fatto indigestione con la pizza che ha lievitato dieci minuti anziché una notte. Abbiamo festeggiato compleanni, scambiato regali, riso e pianto insieme.

Per puro caso, ci siamo trovati a condividere una stagione di vita insieme. Siamo partiti soli e siamo tornati con una famiglia.

Ci siamo riempiti il cuore a vicenda e reso questa esperienza indimenticabile -.

– Cosa ricordi con più vividezza di quel momento?-

– Che ci sorridevano gli occhi -.

A cura di Adele De Pasquale

Credit immagine: https://unsplash.com/it/foto/lotto-di-frutta-arancione-o6nIgVJGSiw

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