I suoi capelli profumavano di sole

Non è come la immaginavo l’Africa. Il cielo è sempre grigio, non si vede mai il sole. Solo una pallida luce risveglia gli abitanti di Agbodrafo. 

Un cereo ma fastidioso bagliore mattutino, costringeva i miei occhi a socchiudersi per guardare fuori, tanto da farmi venire spesso mal di testa. La mia pelle non sudava mai, eppure era costantemente appiccicosa. L’umidità creava un’afa tagliente come lame. Un perenne formicolio alle gambe indeboliva il mio corpo, a stento riuscivo a stare in piedi per più di mezz’ora. Non avevo neanche le forze per girare il tappo della bottiglia d’acqua, spesso mi dimenticavo di bere. Quando giravo per i negozi di Lomé (la capitale) cercavo tutti i punti in cui i condotti dell’aria condizionata refrigeravano la stanza; sembrava di prendere fiato prima di andare in apnea. La strada che percorrevo in macchina, dal luogo in cui pernottavo al villaggio, era un insieme di enormi dossi naturali. Jeep, macchine e moltissimi motorini percorrevano ogni mattina le larghe corsie del paese, alzando una densa polvere terrosa che tingeva di color ocra le ruote delle auto. Durante il tragitto, osservavo i piccoli mercatini di banane e ananas o di ananas e banane che ornavano i lati della strada. In prossimità dei semafori, chiacchierando tra loro, venditori ambulanti tentavano di contrattare al miglior prezzo la vendita degli stessi pacchi di dolci, simili a biscotti. Un’altra cosa segnò particolarmente le mie aspettative sull’Africa: gli unici animali che vidi durante il mio viaggio, erano i pesci rossi della fontana del luogo in cui alloggiavo. 

Non è come la immaginavo l’Africa. Questa è un’Africa in cui non ti abbronzi. È un’Africa in cui non hai sete. È un’Africa terrosa.  È un’Africa senza animali. Questa, è l’Africa di nessuno.

Era una mattina come le altre, o almeno, lo pensavo. Tuttavia, qualcosa di diverso avvenne già dalle prime ore del giorno: il cinguettio di uno stormo di uccellini sostituì la mia sveglia. Non riuscì a vederli, ma il loro canto proveniva dall’esterno della finestra della mia camera. Probabilmente erano nascosti nella fitta chioma del grande albero che guarniva il mio panorama. Mangiavo qualche fetta di ananas per colazione -nulla di più, ormai cercavo di adattarmi all’estenuante viaggio sulle montagne russe dei dossi naturali- quando, di fronte a me, si accostò una ragazza. Eravamo alte uguali, probabilmente avevamo la stessa età.

«Ciao, mi chiamo Ida».

 Alzai la testa dal mio piatto e il suo sorriso accolse il mio sguardo. Parlava l’italiano molto bene. L’aveva imparato da una famiglia italiana che spesso viaggiava da quelle parti per fare del volontariato nelle scuole. Passai con lei tutta la mattinata. Mi portò a vedere la sua scuola e mi presentò alcuni suoi amici. Forse quel giorno le lezioni non c’erano, eppure i ragazzi erano liberi di circolare all’interno delle aule.  Sulle lavagne ancora si leggevano frammenti di parole francesi e di espressioni matematiche. Ida mi spiegava che stavano studiando delle espressioni molto difficili. Prese il gessetto e ne scrisse una alla lavagna. Tante teste curiose si sporsero da entrambi i lati dell’entrata per osservare. In un batter d’occhio, l’aula si popolò di ragazzi incuriositi che commentavano ad alta voce ciò che Ida stava scrivendo. Non parlavano francese, probabilmente era l’Ewe, lingua tipica del Togo meridionale.  Qualche risata colorò le mura gialle e un po’ sbiadite della scuola. Un fiume di ragazzi si diresse verso un chiosco. Ida mi fece segno di seguire la massa. Un ragazzo distribuiva insalata di fagioli, pesce e del foufou, una specie di polenta bianca morbida e appiccicosa. Presto il caos regnò sovrana: uno spazio troppo stretto si affollò di gruppi di giovani che, stipati gli uni sugli altri, allungavano le mani per farsi riempire per primi la ciotola. Qualche schiamazzo e qualche risata riempirono ancora di più il casotto. Mi sentivo come al liceo, quando suonava la campanella dell’intervallo delle dieci. Affamati, con gambe bramose di alzarsi in fretta dai banchi, io e i miei compagni di classe gareggiavamo per aggiudicarci il panino migliore del paninaro.

Ida mi porse una scodella piena. «Insieme?» mi chiese sorridendo. Si sedette accanto a me e si spostò due ciocche dietro le orecchie.

I suoi capelli profumavano di sole. Il suo sorriso era familiare e il suo approccio nei miei confronti molto intimo. Parole e gesti abituali, sembrava mi conoscesse da tempo. I suoi occhi erano discreti, non traspariva un minimo di curiosità. Avevo compreso il suo intento. Finito di mangiare, ascoltavo senza capire i loro discorsi, quando qualche parola risuonò familiare alle mie orecchie. Ida aveva iniziato a parlare in francese. Così, anche i suoi amici, in maniera del tutto naturale, lasciarono il loro dialetto. Notai nel viso di Ida quasi un incoraggiamento a unirmi alla loro conversazione. Le avevo raccontato che a scuola stavo studiando il francese. Non lo conoscevo molto bene, masticavo un vocabolario basilare, ma riuscì ad integrarmi nel discorso con qualche semplice frase. 

Avevo compreso bene il suo intento, e ci riuscì.

Non è come la immaginavo l’Africa. Questa è un’Africa in cui il calore del sole è incastrato nelle ciocche dei capelli. È un’Africa in cui i sorrisi appagano la sete. È un’Africa in cui le risate colorano il paesaggio. È un’Africa in cui gli uccellini cantano a chi ha orecchie che sanno ascoltare. Questa, è l’Africa di Ida, ed è anche la mia.

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Virginia Galizia