Una, due, tre, quattro, un numero in crescita esponenziale. Le coppie di studentesse e studenti che si susseguono in via Maqueda mi obbligano a fermarmi e chiedermi dove staranno andando. Disposte in fila per due, unico rimando a un ordine ereditato da un passato immemore in una scuola in perenne ristrutturazione sociale. Accumunate da un particolare che, chi vive le piazze femministe riconosce bene, il pañuelo fucsia, un segno di appartenenza che ci rassicura e che ci orienta, le coppie navigano in direzione opposta alla mia. Senza pensarci due volte mi volto e torno indietro. Sento che, in questo 24 novembre palermitano – il giorno prima della giornata contro la violenza sulle donne – il luogo verso cui sono dirette queste coppie è dove dovrò essere anche io questa mattina.
La piazza è quella Bellini, le ragazze sono quelle della scuola media Silvio Boccone, vicino al Policlinico. “Hai presente, no? Un quartiere difficile” mi confida Laura, orgogliosa maestra di italiano, attivista di Non Una di Meno Palermo e promotrice delle attività di educazione affettiva nella scuola. “Solo da quest’anno l’abbiamo potuta chiamare anche educazione sessuale perché prima i genitori erano un po’ restii. Adesso guardarli, sono qui, in piazza con noi, ad apprendere dalle loro figlie” mi dice fiera, accennandomi con la testa alla ventina di adulti in cerchio che ha appena assistito, commosso e scosso, alla protesta delle proprie figlie, dei propri figli.

Sì, perché la manifestazione alla quale ho casualmente assistito anche io non può non commuoverti e non può non scuoterti. Lacrime di rabbia bagnano il volto mio e quello di alcune compagne al mio lato, delle insegnanti, delle donne in pensione, quando queste ragazze e ragazzi, vestite di nero, un oggetto fucsia, sia esso il pañuelo o l’eyeliner, inscenano “El violador eres tu”, canzone alla quale ci siamo affezionate con rabbia. Oggi la sento gridata con forza, con l’incitamento di una combattiva insegnante che chiede “Chi è il responsabile?”, da una scuola che è quanto di più distante dalla nostra attuale classe politica. È anni luce avanti rispetto alla nostra legislazione. Avanti rispetto alla narrativa di come ci si immagina il nostro paese.
In altri tempi avremmo parlato di “paese reale”. Ebbene, che venga qualcuno dall’alto a vedere che cosa esigono questi adolescenti. A sentire quali sono le rivendicazioni portate avanti. Venga a vedere la rabbia che pervade loro, la speranza che li nutre. Forse si renderebbero conto che questa piazza, fatta di voci che scandiscono nomi in spagnolo, italiano, siciliano, è il luogo dove bisognerebbe stare. A prender parola, qui, in questo momento, c’è chi in televisione non si vedrebbe mai perché considerato espressione di una subalternità da censurare, una controcultura che non può essere promossa. Qui, ad avere cantato, c’è chi la cittadinanza in questo paese, pur essendoci nato, cresciuto, socializzato, non la ha. Ragazze i cui corpi si mischiano in abbracci consolatori e incitanti. Diverse fisionomie e stili alternativi: un’onda variegata. Un multiculturalismo che sta in piedi e che, al contrario di quanto ci viene narrato fino allo sfinimento, esiste, si riproduce, si contamina e rende vana, insulsa e vergognosa l’idea che l’italianità sia bianchezza e omologazione. Ci ricorda, ancora una volta, quanto le lotte siano tra di loro intersezionali. A manifestare oggi contro la violenza patriarcale c’è una soggettività mista, diversa, plurale.

Rimango senza parole quando, dopo altre due canzoni, rotte le righe, superata la comprensibile timidezza che si ha negli anni delle medie, Heidi, septum fucsia, treccine grigio metallizzato, bomber nero mi dice che “non ne possiamo più di questo sistema”. Perché se penso che solo dieci anni fa né io né nessuna delle mie coetanee avrebbe avuto anche solo la possibilità di elaborarla questa denuncia, figuriamoci dirla ad alta voce ad un’estranea come sono io questa mattina, penso che ci sia, oggi, più di prima, una speranza che non si arrende. Dieci anni fa non avremmo avuto gli strumenti culturali per farlo. Oggi la speranza si rivitalizza nelle sue parole, ma anche in quelle di altre due ragazze che sono stanche di fare la conta dell’ennesimo femminicidio e che esigono “un cambiamento educativo che provenga dalle famiglie”. Che ammettono che “oggi eravamo principalmente noi ragazze” ma sperano che “sempre più ragazzi si uniscano alla causa”.
Sono le dodici. A Palermo fa caldo. Ho ascoltato, incantata, altre ragazze e ragazzi. Una signora con una maglietta fucsia davanti a me ha tenuto suo figlio in braccio tutto il tempo perché potesse erigersi sopra la folla e vedere quanto avveniva. Ho incrociato lo sguardo di una donna più grande di me. Mi ha sorriso con disillusione ma anche coraggio. Io, questa mattina, ho una fiducia sconfinata nella mia generazione, in chi abbraccia la lotta. Questa mattina, pur nello sconforto di questi giorni, mi sento rinata e lo devo a questa manifestazione.
Elsa Rizzo