Penso: uno, due, ottantasei, centotredici. A centoventi il mondo gira: se perdo il conto mi cade il vassoio, con tutta la bottiglia. Da che ho un vassoio non sono mai caduto, ma so che non è un’opzione.
Centoquattordici. Aguzzo i miei sensi senza sbocco: mi trovo vicino all’ingresso. Centoquindici. Sta entrando qualcuno, lo sento nei piedi; urlerà per giorni. Magari ha già iniziato.
Centosedici. I primi giorni urlano tutti, e piangono, l’ho fatto anch’io. Vedere un mondo come questo non può che fare quell’effetto.
Centodiciassette. Vorrei dirgli di non disperare, ché questo è il fondo del barile e qui siamo tutti senza peso, però non ho una bocca – solo un vassoio. Centodiciotto. Siamo arrivati che avevamo occhi e naso e bocca e orecchie, tutti quanti, poi ce li siamo scartavetrati via per simmetria. Succederà anche a lui. Centodiciannove. Il mondo gira, l’alto e il basso sono cambiati, la destra è la sinistra. Devo aver contato male. Il vassoio cade, con tutta la bottiglia. Piano, attento a non ferirmi sui cocci di vetro, mi accascio a terra. Se avessi un volto, ora le mie palpebre farebbero le grinze sui bulbi oculari, con le iridi lucide, la bocca semidischiusa ad emettere un rantolo.

Però io un volto non ce l’ho. Mi allungo a riprendere il vassoio e, per caso, le mani tremanti ritrovano anche la bottiglia. Ne scorro il profilo: è intatta, il tappo ancora chiuso. La stringo al petto in un abbraccio ridicolo. Respiro di nuovo, se avevo mai smesso (se avevo mai iniziato). Poi mi accorgo che la bottiglia sta ricambiando il mio abbraccio: la sua semplice solidità si piega contro la mia e io di scatto la allontano, per paura che possa creparsi, rompersi.
Quando la accarezzo di nuovo, invece, è già tornata com’era. Se la stringi si comprime, ma torna sempre alla stessa forma. È di gomma.
Avverto qualcuno che mi cammina accanto: dev’essere il nuovo arrivato di prima, perché non mi calpesta. Inciampa anche lui.
In un istante recupero il vassoio, sistemo la bottiglia (perfettamente al centro, dov’è sempre stata) e riprendo a far le scale. Mentre mi abituo alla nuova geografia, penso: guarda un po’, sono di gomma anche io.
Chiara Coraglia