La malattia. La malattia in una condizione tutt’altro che transitoria. La malattia terminale, l’unica in grado di sconvolgere, di scuotere di mistero la specie umana per la sua persistente capacità di contravvenire al nostro spirito di onnipotenza e vita sempiterna: il cancro.
La malattia e la scelta di non starci: di non resistere con il corpo in uno spasmodico esercizio di iper-medicalizzazione; ma quella, piuttosto, di assecondare anche questo supposto Male, lasciandosi spegnere con assorbimento consapevole.
Definirei così la scelta di Martha (Tilda Swinton), la protagonista del nuovo film di Almodòvar, una ex corrispondente di guerra che si scopre malata terminale, nella sua New York, e che, dopo un primo tentativo di cura sperimentale, decide di lasciarsi attraversare dalla malattia, di non opporre resistenza, ma pianifica anzi la sua uscita di scena, curandone ogni dettaglio con dedito amore.

Munitasi di una illegalissima pillola acquistata sul dark web, decide di ritirarsi dalla frenesia cittadina della sua metropoli natale, affittando una villa nella non meglio definita campagna circostante, nella quale si dà tempo un mese per godere del ritrovato silenzio, in attesa di togliersi la vita. Il tutto, in compagnia di Ingrid (Julianne Moore), amica ritrovata dopo anni di distanza, che decide – su esplicita richiesta di Martha – di mettere da parte il suo non proprio sereno rapporto con la morte, per assecondare la scelta dell’amica ed essere con lei, nella stanza accanto, “quando sarà il momento”.

Una trama lineare, quasi asciutta, che Almodòvar riproduce magistralmente sul grande schermo, in un teatro di colori e ambientazioni quasi oniriche, che dialogano con l’esterno nella lentezza di una cinepresa che indaga, senza intrusione, gli anfratti della vita quotidiana di queste due donne ritrovatesi a condividere il momento culmine della specie umana: l’abbandono dalla vita.
Un film le cui musiche mettono, a più riprese, sull’attenti, facendo presupporre lo schiudersi di un colpo di scena, di un cambio di velocità, di uno squarcio di imprevedibilità. Condizione che mai si realizza e che, per questo, trascina in una magia senza tempo, scevra di virtuosismi registici, semplicemente leggera. Di una leggerezza che annaffia l’anima, che commuove per la sua profondità e per la cura con cui accarezza i sentiti emotivi che vediamo espressi sui volti delle protagoniste.

Una relazione affettiva, quella tra Martha e Ingrid, lucida ma senza giudizio, audace ma dolce; un comportamento che quasi perplime considerati gli anni trascorsi l’una lontano dell’altra, distanti nelle rispettive pratiche del quotidiano. Una convivenza che insegna ad assecondare l’Altro nella sua semplice esistenza, senza presunzioni di verità o di conversione, ma facendo esercizio semplicemente dell’amore.
Un film dove il movimento è poco, ma quello che c’è è meravigliosamente autentico.
Gaia Bugamelli